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giovedì 11 giugno 2009

quanto ci manca Enrico!


Non potevo concludere la mia giornata senza l'omaggio personale alla memoria di Enrico Berlinguer, rievocando quello che accadde 25 anni fa a Padova. Con la morte nel cuore e con la nostalgia del ricordo rivivo quel tragico momento (http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=131). Sono immagini che non si dimenticano, sono fotogrammi scolpiti. La camicia bianca, il nodo della cravatta che si allenta, il ciuffo fuori posto sulla fronte madida. E quella voce che scandisce le parole con maggior puntiglio via via che i colpi del male incalzano, sempre più devastanti. A un certo punto qualcosa accade, ma non è subito evidente. Il comizio prosegue. Berlinguer resiste caparbiamente, lo sguardo concentrato nello sforzo di non cedere. E' una resistenza estrema, che pare un simbolo di lotta non solo individuale: la cifra di uno stile e di un costume, di un'esperienza collettiva. Quelle immagini strazianti sono anche l'icona di un'epoca. Venticinque anni e sembrano anni luce. Per certi versi sono anni luce. Il motivo? In genere si risponde sul terreno morale. Berlinguer incarna (incarnava già ai suoi tempi) un rigore incomparabile del comportamento e del tratto. La sua riservatezza, la sua sobrietà e la sua austerità (parola chiave del suo lessico politico) si imponevano a chiunque lo ascoltasse. Erano ragioni non secondarie dell'affetto che lo circondava e del rispetto che imponeva all'avversario. Anche per questa assoluta rettitudine fu amato dai comunisti italiani quanto era stato amato e ammirato, prima di lui, solo Palmiro Togliatti. Questo straordinario affetto si sciolse nella commozione di quel milione di donne e uomini che il giorno dei suoi funerali gremirono piazza San Giovanni per dirgli addio in un mare di bandiere rosse. Ed è naturale che oggi il ricordo spinga a tali considerazioni (e per ricordarlo meglio ripropongo questa puntata speciale de La Storia siamo noi, http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=975) oggi che in questo Paese la politica è nel fango, mestiere e affare di una pretesa classe dirigente che ostenta, fiera, i propri vizi e la propria immoralità (e non mi riferisco solo al Pifferaio di Arcore). Ma la distanza stellare da quel giugno del 1984 non chiama in causa solo comparazioni di ordine morale. O meglio. In quella diversità di costumi e princìpi etici vivevano anche ragioni politiche. E per ragioni squisitamente politiche questo quarto di secolo pesa come un macigno e narra di un passaggio d'epoca che va compreso in tutta la sua portata. Non intendo certo fare una sorta di apologìa di Enrico, ci mancherebbe. La segreteria di Enrico Berlinguer ha avuto luci e ombre. Anche di molte ombre, particolarmente fitte (a mio modesto avviso) negli anni del compromesso storico. Quello che avrebbe dovuto essere il dialogo tra il popolo comunista e le masse cattoliche (secondo una lettura della composizione sociale del Paese che fu già di Togliatti) si ridusse di fatto a una defatigante trattativa tra gli stati maggiori di PCI e DC. E non ne venne fuori l'impulso alle riforme né il consolidamento della democrazia partecipata che Berlinguer si attendeva (di questo nelle intenzioni si trattava, non già di un progetto organicistico incentrato sul protagonismo dei partiti). Fu, al contrario, una gabbia dentro cui il PCI si rinchiuse, consegnandosi all'egemonìa moderata del partito di Aldo Moro: sino allo scontro frontale con il movimento del 1977, preludio alla svolta dell'Eur e alla deriva compatibilista della CGIL; sino al governo delle astensioni e alla solidarietà nazionale. Non solo. Quegli anni Settanta (mentre l'Italia cambia, le lotte studentesche e operaie crescono impetuosamente, mentre la partecipazione diviene pratica diffusa, forma reale della democrazia di massa) vedono il PCI avvitarsi in una crisi profonda, figlia della sua stessa forza. Elefantiasi organizzativa, primato dell'amministrare sul trasformare, istituzionalismo. Cambia l'antropologia dei gruppi dirigenti, man mano che le generazioni forgiate dalla lotta clandestina e dalla Resistenza passano la mano ai quadri cresciuti nell'Italia già restituita alla democrazia. Berlinguer se ne avvede? Se ne preoccupa? Di certo non trova contromisure adeguate. L'impressione è che, pur di tenere insieme il partito, assecondi, medi, transiga. Ma questa storia cambia radicalmente nell'autunno del 1980. Lo sciopero dei 35 giorni alla Fiat è per Berlinguer un trauma e un'esperienza rivelatrice. Quella lotta operaia contro un padrone bulimico e arrogante che pretende di scaricare sui lavoratori (licenziandone in tronco 24mila) i costi di una crisi industriale e di mercato, causata dalla sua incapacità, quella lotta è agli occhi del segretario comunista un segno limpido della necessità di ricollocare il PCI nel cuore del conflitto. A sua volta, la risposta di Agnelli e Romiti (la cosiddetta marcia dei 40mila, organizzata per mettere in scena la colpa operaia e piegare la resistenza della FIOM) gli appare un campanello d'allarme sullo stato del Paese, sulla nuova costituzione materiale che prende piede in sintonia con la rivoluzione neoliberista di Reagan e della Thatcher. La svolta che in quelle settimane Berlinguer compie e imprime al PCI (anche contro vasti settori dell'organizzazione e del sindacato) è una cesura. Seguono anni in controtendenza rispetto al decennio precedente. Il partito comunista dell'ultima fase recupera esperienze di lotta abbandonate da tempo. Ricostruisce legami nella pratica del conflitto di classe. Restituisce soggettività e prospettive al movimento dei lavoratori. La reazione di Berlinguer contro il decreto sulla scala mobile è al riguardo emblematica. L'abolizione della scala mobile gli appare la sanzione più esplicita dello strapotere padronale e della subalternità di gran parte del ceto politico. Di più. Come ripete a Padova in quel fatidico 7 giugno 1984, durante il comizio a piazza dei Frutti, l'attacco al salario è parte integrante del disegno eversivo della P2. Gli schieramenti sono netti, non c'è spazio per compromessi. Il segretario del PCI è alla testa di un conflitto aspro, che attraversa anche il partito e che prelude a una ripresa in grande stile delle lotte operaie degli anni Sessanta. Berlinguer muore, se si può dire così, nel momento più delicato. Ha aperto una nuova fase nella storia del Partito Comunista ma non ha fatto in tempo a consolidarne il nuovo corso, e non lascia eredi. Quei suoi ultimi anni rimangono una parentesi incompiuta, e la seconda metà degli anni Ottanta segna il nuovo riflusso del partito della falce e martello. Un partito avviato, inesorabilmente, verso la regressione e la dissoluzione. Il resto è storia di poi, cioè nostra. Una storia che ha segnato in profondità le nostre vite. Venticinque anni fa si chiude un'epoca e ne comincia un'altra, sulla quale non occorre (almeno in questo post) spendere molte parole. Comincia a morire un grande partito comunista. Comincia una storia di regressione trasformistica di un vasto ceto politico e intellettuale. Comincia lo sfondamento della destra che di lì a poco (esattamente nei primi anni Novanta) troverà il proprio riferimento in un padrone allevato, guarda caso, alla corte di Craxi e di Gelli. Personalmente debbo confessare che le ultime parole di Enrico Berlinguer pronunciate a Padova, poco prima dell'ictus che lo colpì a tradimento, sono molto più che un semplice ricordo: «Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini». In questo momento (storico, sociale, politico) della mia personalissima battaglia contro il Pifferaio di Arcore (uno che non è nemmeno degno di pronunciare il nome di Enrico al contrario del presidente Fini), il discorso di Enrico Berlinguer tenuto a Padova e la famosa intervista a Scalfari sulla questione morale rappresentano indissolubilmente una sorta di testamento politico, l'indicazione preziosa della strada da percorrere. Per me e per molti altri (spero) che la pensano come me.

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