tpi-back

domenica 31 maggio 2009

Mario Giordano, per favore, torna a Studio Aperto


Ebbene sì, la mia è proprio una supplica accorata, un invito fatto con il cuore a quello che fino a pochi anni fa era considerato una sorta di enfant prodige, un genio del giornalismo televisivo mai apparso sulla scena nazionale prima. Sto parlando naturalmente di Mario Giordano, il poco più che quarantenne giornalista alessandrino attualmente al timone de il Giornale edito da Paolo Berlusconi ma ovviamente ispirato, politicamente, dal Pifferaio di Arcore. Vi chiederete come mai questo appello nel titolo di questo mio post nell'ultimo giorno del mese mariano per eccellenza, quello dei fioretti. Ecco, proprio per questo motivo. Perchè spero che Giordano faccia un bel fioretto: quello di lasciare la direzione del quotidiano milanese e di tornarsene, sempre se vuole beninteso, alla guida del telegiornale più autorevole delle reti Mediaset, quello Studio Aperto che sotto la guida di Giorgio Mulè è riuscito a dare la notizia bomba che ha letteralmente rischiato di fargli vincere il premio Pulitzer per il 2009: la notizia che il Pifferaio era stato assolto per la vicenda Mills e non che era sub judice in attesa della scadenza del Lodo Alfano. Ma torniamo a Mario Giordano, quello dalla voce baritonale e dalla parlata fluente e senza la zeppola in bocca. Il suo Giornale se ne esce, tanto per fare una cosa nuova, con un attacco vigliacco e senza vergogna nei confronti del settimanale L'espresso, con questa specie di articolo (http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=355204). A stretto giro di risposta il periodico diretto da Daniela Hamaui fa sapere che le falsità descritte nell'articoletto del giornalista prezzolato dal Pifferaio sono smentite da questa registrazione (http://espresso.repubblica.it/multimedia/home/6189852). Ora mi domando: ma caro Mario Giordano, cosa cavolo ci fai seduto sulla poltrona da direttore se non ti viene nemmeno lo scrupolo di verificare se tutto quello scritto dal tuo dipendente Stefano Zurlo sia o meno rispondente alla verità e se merita davvero di andare in prima pagina e scatenare ancora una volta una guerra mediatica (falsa e viscida) contro il nemico del tuo padrone pur di difenderlo in modo così tenace e impavido? Magari correndo il rischio, com'è puntualmente avvenuto, di venire clamorosamente smentito dalle registrazioni e vedersi esposto al pubblico ludibrio nonchè al legittimo disprezzo di chi non la pensa (per fortuna) come te? Allora ti dico, caro Mario Giordano, accetta il mio consiglio: lascia la poltrona de il Giornale e tornatene a Studio Aperto e magari riprendi in mano le sorti anche di Lucignolo che senza di te deve far forza solo sulle tette della diavolita Melita e sulle checche, pardon, sulle chicche del gossip di Signorini. Il che è tutto dire...

il miracolo mancato


La telenovela automobilistica è finita. Almeno per quanto riguarda la puntata tedesca. E se in amore quasi tutto è lecito, e se si possono persino fare le nozze con i fichi secchi, a volte le fusioni impossibili non si possono proprio realizzare. E ce ne dispiace. In economia, un'economia impastata con la finanza e la politica, i miracoli sono più difficili. E' più facile trasformare l'acqua in vino che non veder finire nella pancia di un topolino il corpo di un elefante. Eppure, una prima volta il miracolo è riuscito a Sergio Marchionne, l'uomo del golfino. Forte soltanto di un progetto (sei milioni di auto per uscire dalla crisi) e di vetture piccole e a basso consumo per redimere gli americani, l'uomo forte della casa automobilistica torinese è riuscito ad acquisire la CHRYSLER senza sborsare un soldo, diventandone amministratore delegato e lasciando ai teorici proprietari (lavoratori e pensionati) un solo posto in CdA. Con tanto di benedizione di Obama. Il secondo miracolo, invece, la fusione con la GM Europa, è fallito. La partita è stata vinta dall'austro-canadese MAGNA, vale a dire da Putin. Meglio 300 milioni in rubli e un ipotetico mercato russo, sia pure con un'azienda che sa costruire componenti e al massimo qualche Suv, che non un progetto forte sul mercato europeo ma con una copertura economica che gli Stati interessati, e non la FIAT, avrebbero dovuto garantire. Le ultime pratiche prima dell'annuncio ufficiale del matrimonio sono in corso d'opera. A questo punto, però, mi sovviene una semplice domanda: ma per caso non era proprio il Pifferaio di Arcore il grande Berlusconi e riconosciuto amico di Putin? E come mai allora l'accordo con MAGNA è stato preannunciato proprio da un fraterno colloquio dalla cancelliera Merkel con Putin? Questa storia stimola più d'una riflessione. La prima è che l'Unione Europea non esiste (o esiste solo sulla carta) e chi è più forte fa quel che vuole, difende le sue imprese, scarica sui Paesi (e i lavoratori) colonizzati il conto dei fallimenti. E' il caso della Germania. La seconda considerazione è che l'Italia del Caimano esiste ancor meno dell'Europa. In una stagione di crisi in cui ovunque, da Washington a Berlino, da Stoccolma a Londra a Parigi, la politica comanda sull'economia, il nostro governo lascia che il regolatore di tutto sia il solo mercato. L'Italia non interferisce. Bella roba. La terza, amara considerazione è che non esiste non dico un sindacato mondiale, ma neppure un confronto solidale fra le organizzazioni operaie dei vari Paesi interessati a una vertenza che deciderà del loro lavoro e della loro vita. I più forti, i tedeschi della Ig-Metal, hanno preteso di farla da padroni con gli altri sindacati, avendo alle spalle un partito di riferimento (la Spd filo-russa) e uno Stato forte. In Italia accade un fatto che ha del paradossale: lo Stato non c'è e il padrone (leggi Marchionne) può fregarsene di consultare il governo (che neanche glielo chiede) e i sindacati, dopo aver incontrato governo e sindacati di mezzo mondo. Inutilmente la Fiom e la Cgil hanno chiesto di conoscere subito il piano di Marchionne, stanchi di vedersi comunicare solo le tabelle della cassa integrazione. Trentacinquemila posti diretti sono a rischio, ma se salta l'auto in Italia salta il lavoro di un milione di persone. Se e quando il confronto con Fiat e governo ci sarà, sarà più sfavorevole per i lavoratori, dopo il mancato secondo miracolo di Marchionne. Il fatto è che non esistono gli uomini dei miracoli. A meno che non si chiamino Silvio...

sabato 30 maggio 2009

l'Italia del tutto e subito


Una riflessione si impone all'ombra del caso mediatico dell'anno. La stragrande maggioranza delle ragazze hanno in testa un solo obiettivo, un reale unico traguardo: arrivare al successo nel più breve tempo e magari con la minor fatica possibile. Ottenere la fama, le copertine dei settimanali rosa, blandire il jet set e alla fine sposare anche un milionario, in euro ovviamente. Questo dovrebbe essere, purtroppo, l'insegnamento tratto dai tanti casi Noemi del nostro Paese, a margine dell'effluvio mediatico seguito alle possibili candidature delle veline e delle letteronze per le imminenti elezioni europee. Ragazze in fila per i provini come veline, ma anche per le selezioni dei vari show televisivi, di talento o meno. C'è una fatica che non si vuole più fare. E c’è un’emergenza che sta disorientando il Paese. Si chiama educazione, ma oggi è uno slalom tra regole che impazziscono alla ricerca del figlio o della figlia perfetta, dove conta ciò che appare, il corpo esposto e una certa disinvoltura. La meta è raggiungere la notorietà e per essa non ci si nega niente e si accetta tutto, perfino la foto in pose forti o volgari, dipende dai punti di vista.
La cronaca, anche quella politica, in queste ultime settimane ne ha dato ampi saggi. Ed è sparita dall’orizzonte pure quella che si riteneva una zona franca, il luogo dei minori, tempo protetto una volta dai genitori e dagli adulti, al riparo dalle proiezioni del desiderio. Invece, assisto quasi sgomento a un mutamento di comportamenti che in passato erano considerati trasgressivi. Il modello delle veline, che ha i suoi santuari non solo in molte trasmissioni televisive e che è stato sdoganato come normale opportunità financo per arrivare alla politica, fa diventare adulte ragazzine che perdono l’età e che impostano la propria vita sull’emulazione e non più sulla fatica di apprendere, di studiare, di costruire responsabilità per sé e per gli altri. I meccanismi li hanno costruiti gli adulti, loro è la regia, loro sostengono un progetto che dovrebbe preoccupare.
Accade, invece, esattamente il contrario e gli adulti tendono ad autoassolversi. Nessuno vede le ipocrisie. Guai a parlare di scandalo. È normale che una madre accompagni la figlia alle selezioni di Amici o del Grande Fratello, sfogli il book con le sue fotografie, anche troppo disinvolte, e si compiaccia. Proietta nella figlia il suo sogno represso, non si ferma davanti a nulla.
Ecco, io sono convinto che la prima volgarità che va denunciata è quella degli adulti e non quella, supposta, delle ragazzine. Lo scandalo non è nella trasgressione cui rimandano le foto, ma nella loro, sempre supposta, normalità. Lo scandalo è in chi sostiene il sistema delle veline, meteorine e quant’altro, facendone un modello di vita e di successo, o strumento di consenso, liquidando con rabbia chi pone la questione.
Ci sono vittime in questo Paese di cui nessuno si occupa. Sono i figli diventati oggetto e giocattoli nelle mani degli adulti. A loro la televisione e una politica in cui conta solo come si appare propongono ogni giorno una vita truccata, nella quale sparisce ogni equilibrio tra regole e libertà, dove conta solo l’aspetto, meglio se sexy, e non l’impegno, lo studio e una seria preparazione.
È sulla crisi degli adulti che il Paese si dovrebbe interrogare, sul grado di moralità pubblica che tende a sparire, travolta dai meccanismi perversi della rappresentazione mediatica, dalla bulimia del successo, unica certificazione di qualità della vita reale. Il mercato dell’immagine impone le sue regole e le sue vocazioni, che spesso travolgono famiglie e mettono in crisi i genitori.
Ma non basta chiamare in causa le responsabilità dei media e la cultura delle emozioni che diffondono. Ci sono gesti quotidiani che si possono misurare soltanto alla luce dei loro risultati. Ci sono parole, apparentemente innocue, che rivelano la propria potenza devastante solo quando vengono tradotte in stili di vita. Velina è una di queste, insieme a tutto l’armamentario lessicale del gossip, che sta inquinando ogni cosa, compresa la politica.
Così facciamo diventare i nostri ragazzi e le nostre ragazze adulti precoci e già depressi, spargendo nel contempo sulla società una miscela tossica di immoralità e irresponsabilità. Se qualcuno crede che questa sia la strada giusta, prego, si accomodi. Io mi scanso molto volentieri e faccio passare.

venerdì 29 maggio 2009

aspettando il nono giorno


Il mio personalissimo count-down mi dice che mancano 8 giorni all'appuntamento con le urne. Forse chi mi legge se ne sarà accorto: è da un pò che non distolgo l'attenzione dalle parole e dai fatti che riguardano il Pifferaio di Arcore. Ho seguito chiaramente anche la sua ultima uscita all'Assemblea della Confesercenti. E che qualcuno l’abbia fischiato (http://www.youtube.com/watch?v=YMY_cvzG0Q0&eurl=http%3A%2F%2Fwww%2Ewikio%2Eit%2Fvideo%2F1187934&feature=player_embedded) è indicativo, e del resto a Palazzo Grazioli se l’aspettavano. Che qualcuno l’abbia applaudito in realtà è più sorprendente: mi ostino a pensare che imprenditori, commercianti e gente che rischia del proprio, dovrebbe aver avuto dal Pifferaio un’esperienza sufficiente, per ritrovarsi ancora a bere le sue promesse. Degli otto disgraziati anni che l’Italia ha alle spalle, sei li ha governati lui, e questo non viene mai ricordato a sufficienza. In realtà, nella platea di Confesercenti come in tutto il Paese, la gran parte del pubblico non fischia né applaude, bensì assiste muta e sconcertata alla corrida. Non esiste una sola nazione importante nella quale la crisi economica sia soverchiata da un conflitto paragonabile a quello italiano. Anche se non gli attribuisco molto credito, non mi sorprende il retroscena secondo il quale singoli personaggi della politica e dell’economia, oppure poteri più o meno forti, stiano stabilendo fra loro una sorta di accordo bipartisan in vista di eventuali gestioni d’emergenza della situazione. Non è una prospettiva piacevole (tra l’altro, s’è tanto detto e scritto della politica che finalmente riprendeva il proprio posto di comando...), ma qualcuno dovrà cominciare a porsi il problema di un Paese non governato, infognato fra harem e tribunali. Non sarà passato inosservato che ieri il Corriere della Sera, che aveva evitato fin qui di affondare il colpo sul caso, ha colto l’occasione della presunta gaffe di Dario Franceschini sui figli del Caimano per virare di rotta: coperto da una contemporanea rampogna al PD, ora anche via Solferino pone sostanzialmente le stesse dieci domande de la Repubblica. Mancano otto giorni alle europee. In questo periodo avremo il Silvio scatenato nel richiamo della foresta che funzionò tanto bene nel 2006; avremo i suoi alleati che non spenderanno parole per lui e avremo code di competition fra le opposizioni. Dal nono giorno, anche se non sono sicuro in quale direzione, la stagione politica cambierà radicalmente. E forse ne vedremo delle belle.

giovedì 28 maggio 2009

riflessi (elettorali) negativi del caso Letizia


La data delle elezioni europee si avvicina sempre di più e in casa del Pifferaio (non nella magione di Villa San Martino ma più semplicemente nella vecchia Casa delle Libertà denominato Palazzo Grazioli) serpeggiano malumori, malcontenti e crisi di nervi a ripetizione. Lo scossone dell'affare Noemi Letizia ha letteralmente terremotato la placida tranquillità dello staff berlusconiano che fino a poche settimane fa davano come una scontata formalità il risultato delle urne nel primo week-end di giugno. Certi segnali di nervosismo (basta riguardare la puntata di Ballarò dell'altra sera, http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-695ab0a2-ac75-416d-9e53-ab8d3647f510.html?p=0) ci sono eccome in casa del Pifferaio. Piccoli segnali, certo, non in grado probabilmente di erodere lo straordinario vantaggio che il partito del premier ha accumulato, nel corso del suo primo anno di governo in questa legislatura. Ma segnali indicativi di una certa riluttanza, da parte dell’antico elettorato del PdL, di dichiarare in maniera così entusiasta, come accadeva in precedenza, il proprio appoggio per la sua formazione politica. A mio avviso ci sono due indicatori tra tutti: il primo riguardante l’intero elettorato del Popolo della Libertà, il secondo in particolare quello di stretta osservanza cattolica. Vediamoli brevemente. La fedeltà nelle intenzioni di voto per il Popolo della Libertà era sempre stata, fino a circa un mese fa, superiore all’80% di chi aveva votato questo partito nelle scorse elezioni politiche (secondo in questa speciale classifica solamente alla Lega), che vede riconfermare i propri consensi precedenti per una quota che sfiora (ancora oggi) il 90%, quasi 9 elettori su 10 dunque. Oggi, in particolare nelle ultime due settimane, le dichiarazioni di fedeltà per il PdL appaiono in sensibile calo: erano pari al 70% nella scorsa settimana, scendendo pochi punti percentuali sopra il 60 negli ultimi giorni. Meno di 2 elettori su 3 di questo partito dichiarano dunque di voler riconfermare il proprio voto per la formazione politica del Pifferaio di Arcore. Una quota che fa assomigliare l’appeal del PdL a quello del PD, quest’ultimo peraltro con una tasso di fedeltà da almeno 6 mesi intorno a questo livello. È vero che, come sovente accade all’approssimarsi di una consultazione elettorale, una fetta considerevole dei precedenti elettorati rimette per così dire in discussione le scelte passate, cercando di interrogarsi sulla giustezza di quel voto. Per cui il tasso di incertezza solitamente mostra un picco proprio nelle 2 settimane prima della chiamata alle urne. Ma certo un calo così importante di fedeli, quasi il 20%, ed in un tempo così limitato, appare piuttosto sospetto. Come se l’elettore del Caimano si sia un pò stancato (quanto meno) di ribadire, alla domanda dell’intervistatore, quella opzione che lo scorso anno l’aveva convinto in maniera profonda. Il dubbio che questa nuova mancanza di appeal sia dovuta al caso Noemi che lo vede coinvolto è dunque molto forte. Per verificarlo si può allora ricorrere al secondo elemento che più sopra ho menzionato, il possibile comportamento di voto dell’elettorato cattolico che aveva votato il PdL nelle scorse elezioni politiche. L’analisi di questa fetta di popolazione, che dichiara cioè di recarsi alle funzioni religiose in maniera costante (vale a dire almeno una volta alla settimana) può illuminarci sulle opinioni di coloro che probabilmente sono maggiormente sensibili al piccolo o grande scandalo legato al comportamento del premier. Ebbene, i risultati non lasciano particolari dubbi: la fedeltà della quota cattolica più convinta, all’interno del PdL, si riduce in maniera esponenzialmente maggiore di quella del suo elettorato nel suo complesso. Era vicina al 90% un mese fa, si è ridotta al 75 la settimana scorsa, per giungere oggi a poco più del 55%. Un regresso così gigantesco (di oltre il 35%) nel giro di pochi giorni non può non essere addebitabile alle conseguenze, nelle teste e nelle coscienze dei cattolici più assidui, del caso Noemi, visti anche i continui moniti, sia pur non molto pesanti, delle gerarchie ecclesiastiche e dei giornali vicini alle curie, succedutisi nell’ultimo periodo. Cosa può significare tutto questo dal punto di vista del comportamento dell'elettore nel momento del voto europeo e amministrativo? Forse poco. Forse, al momento in cui anche questi elettori un pò più tiepidi entreranno nella cabina elettorale, nel segreto dell’urna tutto verrà dimenticato. E torneranno ad indicare, tra i tanti simboli presenti sulla scheda, il nome del Pifferaio. Ma è anche possibile che, vista la salienza non certo trascendentale delle consultazioni in questione, un numero significativo tra loro decida alla fine di astenersi, lasciando almeno per questa volta che il premier se la cavi da solo, senza il sostegno osannante di tutto il suo popolo. E francamente spero proprio che accada tutto ciò...

martedì 26 maggio 2009

sexygate alla meneghina


Una volta c'era Giovannona coscialunga e il Decameron del Boccaccio, c'era la Dottoressa del distretto militare e c'era pure la supplente (la mitica Carmen Villani). I giovani pieni di acne della mia generazione amavano sollazzarsi con i film dove si guardavano le nudità dal buco della serratura. Oggi, nel terzo millennio, ci dobbiamo accontentare delle soap opera che hanno per protagonisti il Pifferaio con il testosterone imballato e la ex minorenne napoletana illibata (o quasi). Che era nervoso lo si vedeva lontano un miglio. La faccia torva del Pifferaio di Arcore domenica pomeriggio a San Siro ha fatto il giro delle trasmissioni, sportive e non. Un nervosismo dovuto in parte a ragioni calcistiche come la sconfitta del Milan, i fischi al capitano Maldini nella giornata del suo ritiro, gli striscioni contro una campagna acquisti deludente. Ma soprattutto dovuto all’ennesima puntata del tormentone Noemi, con l’intervista-verità all’ex fidanzato della ragazzina, Gino Flaminio (http://www.repubblica.it/2009/05/sezioni/politica/berlusconi-divorzio-2/parla-gino/parla-gino.html). Quello che però ha più indispettito il premier non è stato lo scoop in sé di Repubblica ma la narrazione che della storia hanno fatto i giornalisti, Conchita Sannino e Giuseppe D’Avanzo. Quello che esce fuori dal combinato disposto della videointervista del giovane napoletano e del suo corrispettivo cartaceo è una specie di romanzo popolare, dal classico schema lui-lei-l’altro, dove però alla fine l’amore non trionfa, anzi soccombe. Lui è il classico bravo ragazzo, d’umile famiglia, che lavora otto ore al giorno in una fabbrica napoletana per mille euro al mese. Come tutti quelli della sua età ha tanti sogni e soprattutto un amore concreto, con una bella ragazza di Portici che va ancora a scuola ma che spera un giorno di sfondare nel mondo dello spettacolo. Una coppia come tante altre, felice, come testimoniato da una lettera di Noemi conservata gelosamente da Gino. Poi all’improvviso il colpo di scena: irrompe niente meno che il presidente del Consiglio in persona nella vita della ragazza. Da quel momento tutto cambia. Lo star system, i sogni di gloria e di fama, i primi provini per la tv, i viaggi a Roma, gli incontri con papi Silvio, il Capodanno a Villa Certosa. La bella Noemi cambia di colpo, si allontana sempre più da Gino fino a lasciarlo, prima dell’epilogo finale: il nuovo fidanzamento con un tronista della De Filippi e la visita a sorpresa del Pifferaio alla festa dei suoi dicciotto anni. Una sceneggiatura, questa, in cui il Pifferaio veste il ruolo del cattivo, del Don Rodrigo, come ha fatto notare Gad Lerner (http://www.repubblica.it/2009/05/sezioni/politica/berlusconi-divorzio-2/don-rodrigo/don-rodrigo.html). E quello che è più grave per il premier è che così si presenta agli occhi dell’Italia media, quella che ha sempre corteggiato e saputo convincere, quella che non l’ha mai tradito nelle urne. Gino infatti non è l’operaio barbuto e politicizzato degli anni ’70. È un ragazzo normale, che cura il suo aspetto, dalle sopracciglia ben squadrate alle basette giù fino alla mandibola, che vuole un lavoro e un futuro senza perder tempo con le ideologie. Un figlio del popolo, quello attuale, non quello mitizzato dalla sinistra. Proprio per questo il beato Silvio, come riporta il Corriere, corre ai ripari: sente Elio Letizia, il papà di Noemi e consiglia un’intervista riparatrice, uscita sul Mattino, in cui si ricostruisce la genesi della loro amicizia. Una versione altrettanto popolare e altrettanto strappalacrime. I due si sarebbero conosciuti in campagna elettorale nel 2001, a Napoli, perché Letizia gli promette delle cartoline antiche, vecchia passione del premier. Promessa che viene mantenuta con un viaggio a Roma dopo le elezioni. Ma in quello stesso anno ecco che succede la disgrazia: il primo figlio di Elio, Yuri, muore in un incidente stradale. La notizia arriva alle orecchie del prostrato Silvio che prende carta e penna e scrive una lettera accorata e toccante. Da quel giorno il premier promette a se stesso di non lasciar sola quella sfortunata famiglia (e men che meno quella piccola illibata della Noemi...). Due storie, lo stesso protagonista ma due ruoli diversi. Una realtà che si sdoppia, in cui diventa vero tutto, anche il suo contrario. Così chiunque può scegliere a quale delle due credere. Alla fine della pruriginosa storia campano-meneghina, la morale va a farsi benedire, la dignità del premier finisce sotto i tacchi e le 10 domande rimangono a tutt'oggi ancora inevase...

domenica 24 maggio 2009

se anche l'azienda del Pifferaio sciopera...


Una premessa è d'obbligo: la notizia che ha ispirato questo odierno post non l'ho letta (purtroppo) su Libero di Feltri o su il Giornale di Giordano. E nemmeno su altri quotidiani, diciamo così, meno vicini al Pifferaio di Arcore. No, questa notizia l'ho pizzicata su un giornale comunista, il manifesto, ma credo che la fonte sia più che attendibile. Si sciopera anche nell'azienda del Grande Capo. La stampa non ne parla, è un tabù per le televisioni (soprattutto quelle del Biscione), ma l'altro ieri la Videotime di Roma (400 dipendenti Mediaset) si è fermata: Forum di Rita Dalla Chiesa non è potuto andare in diretta, ma è stato registrato il giorno prima; le varie edizioni del TG5 sono state messe in onda grazie ai quadri, che per una volta hanno sostituito il personale semplice; anche per Matrix si è fatto ricorso a una puntata di magazzino. La protesta è stata organizzata dai tre sindacati CGIL, CISL e UIL (dunque non dalla sola organizzazione di Epifani, per cui uno sciopero anti-Pifferaio sarebbe stato più scontato...), che parlano di un'adesione al 90 per cento. I 400 lavoratori di Videotime Roma sono un decimo dei circa 4000 di Mediaset (a loro volta divisi in 4 società: Rti, Elettronica Industriale, Endemol e, appunto, Videotime). Coprono gli aspetti tecnici di tutte le trasmissioni di intrattenimento e dei telegiornali in tre centri: Palatino, Cinecittà ed Elios, sulla Tiburtina. La causa dello sciopero? I dipendenti di Videotime non reggono più: le condizioni di lavoro sono sempre più aspre a causa di una pressione multipla esercitata da almeno tre categorie che convivono negli studi accanto a loro. Innanzitutto ci sono i tanti professionisti-consulenti che ruotano attorno alle cosiddette star televisive: a quanto afferma il sindacato, la parrucchiera personale di conduttrici come Rita Dalla Chiesa e Barbara D'Urso può arrivare a guadagnare dai 700 fino ai 1.300 euro al giorno. Mentre il salario mensile di un dipendente Videotime (tecnici, operatori di ripresa, produzione) va dai 1.200 euro base fino ai 1.500 se si aggiungono le maggiorazioni e gli straordinari. Ma non basta: alla base della piramide Mediaset, dunque nell'altro emisfero rispetto al privilegio delle star, c'è il vero popolo degli sfruttati, quelli che non hanno potuto neanche scioperare perché non hanno voce, e il cui utilizzo sempre più intenso sta contribuendo a mettere da parte il personale dipendente. I cosiddetti servizi esterni, fatti di troupe di operatori e specializzati di ripresa, fino agli stessi parrucchieri (ma quelli che truccano gli ospiti più sfigati), per 10 ore di lavoro possono costare all'azienda dai 50 ai 100 euro al giorno, in partita Iva o con appalti che applicano i più svariati contratti, dunque all'insegna del grande risparmio (niente ferie, niente diaria, niente tredicesime, premi di produttività o integrativi). Infine, c'è la terza categoria di concorrenti alla Videotime, ma la gran parte di loro fa parte della stessa Mediaset. Si tratta dei dipendenti della Endemol, la società di Marco Bassetti che offre prodotti già pronti ai canali del Pifferaio, come il Grande Fratello. Ma ci sono anche la Corima (ex società di Corrado Mantoni), la Fascino (di Maria De Filippi), la Triangle (di Paola Perego): tutte con personale proprio, che in produzione viene affiancato o che oramai sostituisce in studio quello di Mediaset. Insomma, da mesi i sindacati chiedono risposte alla dirigenza perché gli accordi stipulati non vengono rispettati, come a volte gli orari, e gli interni sono sempre meno utilizzati: «Da tempo non si assume più e il personale interno non viene praticamente più formato o viene sottoutilizzato - spiega un rappresentante della RSU che preferisce mantenere l'anonimato - temiamo che via via si voglia ridurre il personale per far sempre più ricorso a esterni e precari». Dalla CISL arriva più esplicita la parola licenziamento, un tabù per il Pifferaio di Arcore, che si è sempre vantato del fatto che «a Mediaset non si sciopera mai nè si licenzia». «Per ora- spiega Roberto Crescentini della Fistel CISL - ci sono quelli che noi chiamiamo "licenziamenti bianchi" e cioè sottoutilizzare il personale, farlo stancare della situazione affinchè molli, non sostituire chi va in pensione. Certo, se si continuerà a esternalizzare a questi ritmi, temiamo un ridimensionamento molto più drastico». La goccia che ha fatto traboccare il vaso e a indire lo sciopero è stato l'episodio dello stampone per la puntata di Matrix del 1° maggio scorso. Lo stampone è il piano turni che viene esposto ogni venerdì, e vale per tutta la settimana successiva. L'azienda ha prima chiesto ai lavoratori di fare lo straordinario per il primo maggio, pubblicando di conseguenza lo stampone con i turni per la Festa del lavoro; ma dopo, il martedì successivo, ha deciso che la puntata non si sarebbe più fatta e, senza dire nulla, ha esposto un nuovo stampone con la puntata del 1° maggio cancellata. «Potrà sembrare un episodio di poco conto - spiega sempre il delegato CISL - ma sono mesi che facciamo incontri per protestare del sempre minor rispetto nei nostri confronti. I lavoratori e le RSU sono ogni giorno sempre più marginalizzati, mentre vengono utilizzati appalti e precari senza regole; inoltre, così facendo, si creano pericolosi precedenti per il rinnovo del contratto». Altro esempio di malumore? Un dipendente, di cui è sempre meglio non citare il nome per ovvie ragioni, spiega di lavorare da 23 anni per Mediaset. Nel 2001 è stato trasferito da Palermo a Roma, e nel 2003 ha avuto un'operazione al cuore con pace maker. Nonostante la sua invalidità, l'azienda non accetta di riportarlo a Palermo, e ogni week end è costretto a viaggiare per rivedere le figlie. «Intanto - spiega l'anonimo dipendente - hanno accordato due trasferimenti da Roma a Milano, ma al sottoscritto non lo considerano proprio. Anzi, stanno facendo di tutto per spingermi a dimettermi: per anni mi hanno tenuto su una sedia senza farmi fare nulla». Ebbene sì, cari lettori, anche questa è Mediaset. Miglior spot di questo...

sabato 23 maggio 2009

il sacrificio degli eroi


Speravo in qualche parola di commosso ricordo da parte del presidente del Consiglio attualmente in carica per ricordare la tragica fine (avvenuta quel 23 maggio di 17 anni fa) di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Rocco Di Cillo, Vito Schifani e Antonio Montinari. Invece nulla, come da prassi. Mi sarei meravigliato del contrario. Diciassette anni fa e sembra un secolo. Il tritolo sull'autostrada prima dello svincolo di Capaci ha segnato un'epoca, è stato uno spartiacque nella storia repubblicana del nostro Paese, una ferita indelebile nella memoria democratica. Quella strage ha rappresentato una tappa fondamentale per lo smantellamento della cosiddetta Prima Repubblica ed ha rilanciato una nuova stagione stragista di Cosa Nostra. Mancano ancora tanti particolari per una lettura compiuta di quella vicenda (vi consiglio comunque questo speciale de La Storia siamo noi, http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/giovanni-falcone/620/default.aspxper una interpretazione definitiva di quei mesi di sangue e accordi, di trasversalismi inquietanti tra apparati dello Stato e mediatori mafiosi, tra la politica e gli emissari della criminalità. Mancano ancora particolari per definire il ruolo di Vito Ciancimino e del generale Mario Mori, per analizzare il contrasto di strategia tra Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Le inchieste giudiziarie e le analisi storiche hanno svelato parzialmente gli interessi che scorrevano sottotraccia: Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo sono state vittime di un gioco golpista che mirava esplicitamente al cuore del Paese, carne da macello di una stagione transitoria proiettata alla definizione dei nuovi assetti di potere. L'apoteosi della spettacolarità criminale di Cosa nostra è stata un pezzo di un mosaico complesso che, per dirla con Giancarlo De Cataldo, ambiva a consegnare l'Italia nelle mani giuste, tra le braccia di chi avrebbe potuto garantire la nuova geografia del potere. La stagione stragista era iniziata un paio di mesi prima, quando la mafia uccise Salvo Lima, il referente della corrente andreottiana in Sicilia, l'uomo forte della politica isolana, l'ufficiale di collegamento tra la Democrazia Cristiana e le esigenze delle famiglie palermitane. Quell'omicidio ha segnato, simbolicamente, la fine di un legame politico e la ricerca formale di nuovi interlocutori. Non sarebbe possibile un'interpretazione accurata degli elementi genetici della cosiddetta Seconda Repubblica senza una capacità di analisi degli assetti di potere precedenti e successivi alla strage di Capaci: il declino e la morte del Partito-Stato e del Pentapartito; la stagione di Tangentopoli e il ruolo costituente della magistratura inquirente; l'avvento del Pifferaio di Arcore e di Dell'Utri; l'accelerazione uninominale e maggioritaria del sistema politico italiano. A fianco di questi eventi si è sviluppato un nuovo protagonismo politico caratterizzato da un'etica anti-mafiosa, da una grande smania di cambiamento che ha portato alla nascita di una nuova speranza territoriale, la stagione dei sindaci progressisti. Ancora una volta un grande mistero stragista, verificatosi in Sicilia, ha cambiato il corso della storia italiana: da Portella della Ginestra a Capaci, i passaggi epocali del Paese vengono sanciti in un accordo tra il potere ufficiale e il potere criminale, che culmina nella mattanza degli innocenti. Dopo diciassette anni, la transizione italiana sembra compiuta e la potenza economica delle organizzazioni criminali è impermeabile, inossidabile perfino all'offensiva delle forze dell'ordine e della magistratura che, negli ultimi anni, hanno smantellato un pezzo importante della struttura militare di Cosa nostra e hanno arrestato esponenti di primo piano della Cupola. La mafia è ancora forte, ha una presenza territoriale capillare, un gruppo dirigente giovane e spietato, una ramificazione articolata negli apparati pubblici, nella politica, nella borghesia dei circoli e dei salotti palermitani e nei quartieri popolari dove ancora si può comprare il voto con poche decina di euro. La mafia non ha cambiato pelle, ha cambiato tattica. La sua strategia si muove tra gli abissi invisibili e si ripresenta, in modo carsico, nella gestione del potere. Ancora oggi la questione morale e la lotta alla mafia sono due temi che ripropongono interrogativi difficili alla politica che troppo spesso, nel migliore dei casi, ha relegato al compito della magistratura il ruolo di contrasto alla criminalità organizzata. La politica e la sinistra hanno una ragione di esistere solo se sono in grado di riconnettere le lotte sociali con la questione democratica, proprio nel momento in cui la crisi e la torsione autoritaria di questo Paese sono, ancora una volta, il terreno più fertile per le strategie mafiose. Giovanni Falcone aveva chiaro questo punto. Diciassette anni fa, ieri.

venerdì 22 maggio 2009

il messaggio di Emma


Deve avere un bel caratterino la presidentessa di Confindustria. Gli ultimi dubbi me li ha tolti ascoltando il suo intervento all'Assemblea degli industriali, alla presenza delle alte sfere dell'economia, della politica e della finanza e dell'immancabile omino dei sogni, il Pifferaio per l'appunto. Nella relazione che Emma Marcegaglia ha pronunciato all’assise di Confindustria c’è un passaggio rimasto sotto traccia, in realtà fondamentale. «Senza riforme – dice la presidentessa – occorrerà attendere fino al 2013 per recuperare i livelli produttivi di prima della crisi. Un arco di tempo troppo lungo per non avere conseguenze negative sulla vita dei lavoratori, delle imprese e sulla stessa coesione sociale». È vero, i segnali positivi iniziano a far capolino e con ogni probabilità già dall’anno prossimo la recessione sarà finita. Ma, avvertono gli industriali, la caduta è stata così pesante da richiedere forti ritmi di crescita della produzione e del PIL per essere pienamente recuperata. E l’Italia, da un decennio a questa parte, non è mai cresciuta oltre l’uno virgola qualcosa. Sarà questa la sfida che attende il Paese: per tornare a respirare fuori dall’acqua della crisi occorrerà non tanto rimettersi a galleggiare, quanto nuotare con decisione, dandosi una forte spinta. Altrimenti, alla lunga, le vittime della crisi in termini di disoccupati e nuovi poveri rischiano di essere più di quante non se ne registrino oggi, nel pieno della tempesta. Ma a quali risorse attingere per dare questo colpo di reni? La presidentessa della Confindustria ha indicato con chiarezza la propria ricetta: «Si facciano le riforme, subito. Adesso». A partire da quella delle pensioni, liberando così risorse da destinare agli investimenti. Ora, a rendere necessario un graduale aumento dell’età minima pensionabile necessita l’allungamento della vita media dei cittadini e la nostra stessa struttura demografica, ormai a piramide rovesciata, con pochi bambini e moltissimi anziani. Tanto che persino il sindacato non oppone più un no pregiudiziale, ma pone condizioni, più o meno pesanti, sul come eventualmente procedere. Il più restìo ad operare in questo momento, in realtà, è il governo che ancora ieri con Tremonti ha tagliato corto: «Se ne parlerà a tempo debito». Non illudiamoci, però, che sia la pur necessaria riforma delle pensioni a portarci fuori dal guado. Fondamentale appare in realtà, a mio modesto avviso, un cambio di passo deciso nel modo di fare impresa e di lavorare nel nostro Paese. Investimenti, ricerca, innovazione, focalizzazione sul prodotto, spinta all’export e soprattutto un più stretto rapporto lavoratori-azienda sono le chiavi per accendere un nuovo, più solido sviluppo. La Confindustria e la parte più avanzata del sindacato l’hanno capito e, rinnovando il sistema contrattuale, hanno cominciato a gettare le basi della nuova fase. Che adesso, però, deve trovare concretezza: in un incremento significativo dei salari (troppo bassi), in comportamenti premianti per i giovani (troppo a lungo precari nelle aziende), nell’apertura convinta alla partecipazione nelle sue diverse forme e nell’agevolare, da parte del sindacato, la crescita della produttività delle aziende. Una notazione, però, è a questo punto necessaria. Mentre nel mondo produttivo si delinea (pur con fatica ed eccezioni) un nuovo clima d’intesa e di collaborazione, in vista d’un bene comune, in politica si avverte qualcosa di inverso, un’involuzione, un avvitarsi su se stessi. Ovvio, siamo in campagna elettorale, e l’opposizione non esita a sparare i suoi colpi. Ma è quantomeno deludente (e questa volta voglio essere magnanimo nell'utilizzo delle parole) che il Pifferaio non utilizzi linguaggi adeguati e pertinenti e che all’assemblea degli industriali continui ancora con la polemica sui giudici e riapra quella sul Parlamento e che non rinunci al battutismo. Si può per favore parlare di strategie economiche, del futuro delle imprese e della vita dei lavoratori, anziché di veline e toghe, in questo Paese? Certo che si può! Magari il giorno che deporremo dal trono il Caimano...

giovedì 21 maggio 2009

quel solito vizietto del Pifferaio...


Questa volta, giuro, il titolo non l'ho scelto per parlare del testosterone del Pifferaio e delle sue mirabolanti (ipotetiche) imprese a sfondo sessuale, men che meno delle sue preferenze in fatto di anagrafica delle pulzelle con la predisposizione a chiamarlo confidenzialmente papi. No, questa volta il titolo del post si riferisce esplicitamente al vizietto del Pifferaio nel costruirsi su misura (come l'abito del suo sarto preferito) la legge o leggina ad personam. Proprio oggi, conversando sul posto di lavoro con un mio collega durante la pausa pranzo, ho accennato della questione Mills tratteggiandone, a mio modesto avviso, luci ed ombre della faccenda. Mi ero astenuto fino ad oggi dallo scriverne su questo blog, anzi non avevo nemmeno preso in considerazione l'eventualità di parlarne (visto e considerato che già in passato l'affare Mills l'avevo ampiamente trattato su queste colonne e su quelle dell'altro mio blog), ma l'affabile e cortese scambio di opinioni con il mio collega mi ha indotto stasera a riprendere in mano il bandolo della matassa e scoprire una cosa alquanto interessante. In attesa che il premier dica la sua in Parlamento sulle (o meglio contro le) toghe rosse, non mi sembra che il medesimo Parlamento non stia facendo nulla in materia di giustizia. Si dirà: è ovvio, viste le condizioni disastrate in cui versa, bisogna assolutamente riformarla. E in fretta. E infatti, la commissione giustizia del Senato in questi giorni sta esaminando una proposta di legge del governo (ministro Alfano) di riforma del codice di procedura penale. Immagino che a chi sta leggendo sovvenga la naturale domanda: servirà a snellire i processi? A renderli più veloci? A garantire al cittadino il sacrosanto diritto ad una giustizia efficace? Forse. Di sicuro, servirà a dare al premier un altro aiutino per i suoi guai giudiziari. Guarda caso (a volte quando si dice la combinazione...) il testo prevede una modifica dell'attuale articolo 238-bis che, se passerà, lo renderà inapplicabile proprio nei confronti del Pifferaio di Arcore e proprio nella vicenda Mills. Il 238-bis è un articolo che fu introdotto nel codice di procedura penale all'indomani delle stragi dei giudici Falcone e Borsellino, allo scopo di evitare che le conoscenze acquisite nel corso dei grandi processi per mafia andassero perse, permettendone l'acquisizione in altri procedimenti. Vi si prevede infatti che (fatte salve alcune disposizioni) una sentenza irrevocabile (cioè definitiva) possa essere acquisita come prova dei fatti in essa accertati in un altro processo. Il nuovo 238-bis, così come modificato dalla proposta del governo, limita questa possibilità solo ad alcuni reati particolarmente gravi (tratta di schiavi, mafia, sequestro di persona), vietandola di fatto per tutti gli altri. Quindi anche truffa, corruzione e altro. Tradotto: quando il beato Silvio andrà sotto processo (perché non più premier e quindi non più sotto la protezione dello scudo Alfano), i fatti accertati nella sentenza Mills, qualora diventata definitiva, non varranno come prova. I nuovi giudici (perché non possono essere gli stessi che hanno giudicato l'avvocato inglese) «dovranno ricominciare da zero - come osserva il senatore Luigi Li Gotti, capogruppo IdV nella Commissione giustizia di Palazzo Madama - Sarà inevitabile la prescrizione». Prescrizione che ora (per effetto del Lodo Alfano) è sospesa, ma che ricomincerà a produrre i suoi effetti (resta a disposizione circa un anno) non appena il premier tornerà ad essere processabile. Sarà pure vero che, come sostiene qualcuno, anche così come stanno le cose adesso, ben difficilmente il processo a Berlusconi finirebbe prima della prescrizione. Però resta il fatto che anche questa è una piccola nuova legge ad personam, come denuncia il senatore Li Gotti. Infatti, se fosse vero che il 238-bis pregiudica il principio dell'oralità del processo (ovvero che la prova si forma nel corso del dibattimento in aula), non dovrebbe essere eliminato tout court anziché essere limitato solo ad alcuni reati? Per non dire che una recente sentenza della Corte Costituzionale (gennaio 2009) si è già pronunciata in proposito, ribadendo che il principio dell'oralità del processo non viene scalfito dall'articolo 238-bis, sia perché si tratta comunque di fatti accertati nel corso di un dibattimento (sebbene in un altro processo) sia perché anche gli elementi acquisiti nella sentenza irrevocabile verranno a loro volta valutati e saranno suscettibili di ulteriore riscontri. A conclusione di questo mio post e e nell'ipotesi che questo articolo venga letto dal mio collega di ufficio, do senza indugio la risposta al quesito che lui mi ha posto oggi: sì, a mio avviso questo pasticciaccio Mills determinerà per il Pifferaio l'inizio della fine. Prepariamoci al peggio (o al meglio, secondo la visuale...), ne vedremo delle belle...e stavolta non saranno veline.

domenica 17 maggio 2009

gli anticorpi del potere


A volte mi ritrovo a fare delle considerazioni sulla scia di altrui prese di posizione. Questa sera, per esempio, mi è venuta la voglia irrefrenabile di scrivere questo post dopo aver seguito in tv l'intervento di Enrico "Chicco" Mentana nel corso della trasmissione di Fabio Fazio su RaiTre. L'occasione era la promozione al libro dell'ex direttore editoriale di Mediaset uscito da pochi giornoi e di cui sento parlare in giro un gran bene. Ma le parole usate a un certo punto della conversazione da Mentana (indipendenza, coerenza, non appiattimento alla ragion di stato televisiva e altro ancora) mi hanno piacevolmente sorpreso e gratificato, in quanto anche nel mio piccolo cerco di seguire la stessa strada tracciata dalle parole dell'ex conduttore di Matrix. E qui inizia la mia riflessione di stasera. A mio modesto avviso nel nostro Paese c'è una malattia che ha corroso dall'interno, come un tumore, le istituzioni, i partiti, i sindacati, sinistra compresa: è la propensione all'obbedienza, è l'acritico istinto autoconservativo degli apparati che consiglia prudenza, sino all'autocensura, ogni qualvolta si tratta di esprimere delle opinioni che comportino un'assunzione di responsabilità. All'obbedienza si viene educati da chi detiene il potere. In pratica si opera un patto, talora implicito, in molti casi piuttosto esplicito, in ogni caso consapevole in entrambi i contraenti: tu rinunci alla tua indipendenza, alla tua creatività e ti affidi a me; io ti ricompenserò assicurandoti protezione, garanzia di carriera e quant'altro. Sotto il mio ombrello non avrai nulla da temere, purché il tuo sostegno mi sia sempre assicurato. Un bel teorema, non c'è che dire. Fatalmente, saranno i mediocri più ossequienti a superare di slancio questa selezione: mediocri, ma affidabili, perché proni al comando, quale che esso sia. L'obbedienza non è pura cupidigia di servilismo. Essa si regge sulla paura: la paura della punizione, il timore di tornare ad occupare quel solo posto che le proprie modeste qualità consentirebbero. Il potere è centripeto, guarda all'interno, non persegue velleità persuasive. Il potere costringe, blandisce, ricatta, premia o punisce, tiene in scacco. La sua forza non viene dal consenso, ma dal timore che incute. Perché, come ammoniva il Machiavelli nel suo Principe: «se l'amore può passare, la paura non viene mai meno». Poi, c'è l'altra versione dell'obbedienza, più complessa, ma non meno pericolosa. E' il fideismo, l'abnegazione sincera e appassionata al capo che ti ha sedotto per le sue superiori capacità intellettuali, assunte a inossidabile criterio di verità, persino nelle loro repentine evoluzioni. Che, malgrado ogni giravolta del leader, non smettono di suscitare fascinazione. E' così che proliferano stuoli di cortigiani, solerti nel difendere le tesi del capo, anche quando queste si rivelano manifestamente infondate (non pensiate, cari lettori, che mi stia riferendo al Pifferaio...vi prego). La clonazione, a cascata, di uno stuolo di esecutori acefali conferisce poi all'organizzazione una finta immagine di forza e di coesione interna, ne mimetizza la crisi latente, ma allo stesso tempo ne accentua la separatezza dal proprio corpo vivo. Allora, la distanza fra rappresentanti e rappresentati (o se volete fra governanti e governati) si allarga sino a diventare incolmabile. Il leaderismo non è una variante semplificata della democrazia, soltanto un po' venata di autoritarismo. Ne è l'esatto contrario. Non esiste un leaderismo di sinistra. Quando esso si è manifestato, anche nei momenti di maggior forza e prestigio della sinistra, esso era l'espressione di una latente patologia, piuttosto che di vitalità. Il culto del capo è, da parte di chi vi si sottomette, un'autocastrazione della propria personalità. E' la rinunzia al proprio ruolo, al pensare in proprio. C'è un Cesare che lo fa per me. Egli non può sbagliare. Se cade, tutto precipita. Il dissenso diventa allora il peggiore dei delitti, la fenditura che incrina la diga. Nel dissenso, nella critica, si intravede il rischio di una dissoluzione o di un indebolimento delle inossidabili certezze e, soprattutto, del potere costituito. Il cui intrinseco monolitismo non sa (non può) riconoscere la ricchezza della dialettica. Che invece dovrebbe essere stimolata e accolta come una benedizione da parte di chi lavora per la democrazia. Quando invece si rinuncia alla ricerca del vero, che sempre confligge con la realtà data, si impone la verità rivelata, appannaggio di una casta sacerdotale che custodisce l'ortodossia e la brandisce come una clava contro chiunque vi si opponga. Chi dissente è un eretico, un seminatore di discordia, da eliminare o da neutralizzare. Anche il potere rivoluzionario ha teso storicamente a ossificarsi. Ma negando il dissenso la rivoluzione nega se stessa: nata per abbattere il dispotismo diventa essa stessa dispotica, si converte nel suo opposto. Ecco perché quando si insedia un potere, di qualsiasi natura e colore, è indispensabile far nascere degli anticorpi, perché è nella fisiologia del potere mantenersi ad ogni costo. Non si tratta, dunque, di disconoscere l'autorevolezza, politica e morale, nè la funzione trainante, di guida, delle forti personalità. Il problema è semmai non rendersene succubi, è non abdicare al personale discernimento, in assenza del quale quel ruolo di guida si perverte e si dissolve nell'arbitrio, nell'autoritarismo, anche se dissimulato. Antonio Gramsci metteva in guardia dal rischio di una degenerazione autoritaria, che si impone tutte le volte che il capo non abbandona («non rinnega») la sua origine carismatica e pone se stesso come insostituibile. Quando questo avviene la democrazia si dissolve. E l'organismo (il partito, il sindacato, il movimento) cui si è dato vita, muta profondamente, nella forma e nella sostanza, nel regimento interno come nella sua missione. Forse, se l'esperienza storica del comunismo si è consumata nell'alternativa fra capitalismo e proprietà statale, fra mercato e programmazione; se l'approdo verso un'autentica proprietà sociale non si è mai affacciato nella storia umana, ciò è proprio da imputare all'incapacità di sviluppare sino alle estreme conseguenze la democrazia. La democrazia come autogoverno dei produttori associati. Scusatemi se sono andato ben oltre il tema principale che aveva ispirato questo mio post domenicale. E chiedo scusa anche a Enrico Mentana se ho preso a pretesto il suo intervento a Chetempochefa per inerpicarmi sui sentieri impervi della storia e della filosofia politica quando la mia reale intenzione era ancora una volta parlare del Pifferaio di Arcore...

sabato 16 maggio 2009

sicurezza & razzismo


Spero di non ripetermi ma l'argomento merita sicuramente un altro post. Il coro di polemiche che ha accompagnato la decisione leghista di far passare il vergognoso pacchetto sicurezza, non fa altro che aumentare la mia rabbia e la mia indignazione per una scelta decisamente razzista che questa maggioranza di governo sta attuando nel 21° secolo, facendoci precipitare in un limbo storico che mai e poi mai si dovrebbe ripetere. Una caccia alle streghe (di colore) dal sapore medievale, una sorta di apartheid extracomunitario infarcito da ricordi di croci uncinate. Il pacchetto sicurezza si basa su un'idea che, al di là delle specifiche e gravi ricadute sulla vita dei migranti, sancisce la definitiva acquisizione nel nostro ordinamento di forme di razzismo istituzionale. L'idea di Stato e di società che porta con sè è quanto di più lontano si possa immaginare da quella cultura della cura e dell'accoglienza che aveva fatto del nostro Paese uno dei più avanzati al mondo, in termini di legislazione in materia di diritti umani e civili, e allo stesso tempo di riconoscimento e vicinanza con le persone più fragili e differenti. E' una deriva che viene da lontano. E' un'ondata razzista e discriminatoria nei confronti delle persone migranti che in questi anni è stata alimentata da una politica vigliacca e strumentale, e che si è diffusa in modo ampio e profondo trovando facile presa nelle paure e nell'ignoranza, nel senso di precarietà e preoccupazione per il futuro che coinvolge milioni di cittadini italiani. Il reato di immigrazione clandestina, che per la prima volta dopo le leggi razziali, considera reato non un comportamento ma una semplice condizione umana; l'allungamento dei tempi di detenzione nei centri di identificazione ed espulsione di persone che non hanno commesso nessun atto criminoso; l'inaudita violenza della norma che impedisce ad una madre di riconoscere il proprio bambino o la propria bambina solo perché non in regola con la normativa sul soggiorno sono scelte legislative che offendono la nostra storia, la nostra Costituzione, la nostra cultura. Il pacchetto sicurezza, ancora, è un insieme di norme che sancisce che milioni di persone non avranno nemmeno più il diritto di appartenere all'umanità perché, nei fatti, saranno negate nella loro esistenza e non riconosciute come soggetti di diritto. Non persone, perché le persone creano problemi in quanto pretendono di essere rispettate e hanno aspettative e sogni, ma solo forza lavoro, necessaria e indispensabile per coltivare i nostri campi, per portare avanti molte nostre imprese, per curare e accudire i nostri anziani. Un processo che, partendo dagli immigrati e dalle immigrate, si è allargato e sta caratterizzando e orientando la configurazione stessa della nostra società. Ha consolidato, cioè, un'idea di società dove le identità si costruiscono e si riconoscono sul dominio o sull'annullamento delle altre identità differenti; dove la violenza non solo viene sdoganata ma assunta, in molti casi, come regolatrice delle relazioni umane, singole o collettive; dove le città diventano luoghi abitati non da cittadini ma da competitori sfrenati; dove gli ultimi, i differenti e i poveri sono spinti o costretti in periferie urbane e sociali senza diritti, senza opportunità, senza la possibilità di incidere sulle decisioni; dove le persone, come il territorio e il sapere, sono sacrificati e rapinati in nome del profitto. Di fronte a tutto questo, come persona (prima ancora che come blogger) penso che nessuno possa più limitarsi alla sola indignazione. Penso che anche il silenzio, il non dire con chiarezza da che parte si sta, equivalga in qualche modo ad essere complici. Penso, come dicono gli zapatisti, che sia venuto il momento di esprimere la propria degna rabbia. Penso sia urgente che ognuno di noi, nei luoghi del suo impegno, ma anche in quelli di vita e di lavoro, debba nel quotidiano e con continuità contrastare l'ondata di inciviltà, di cattiveria e di razzismo che ci sta sommergendo. Penso sia venuto il momento della denuncia e di dichiarare la propria disobbedienza civile, democratica e non violenta rispetto a norme che colpiscono chi è più fragile, che negano le persone e che stravolgono ogni principio di eguaglianza e accoglienza. Penso che la politica, fuori e dentro il Parlamento, debba interrogarsi sulle sue responsabilità passate. Su come, in tanti casi, vi sia stata la rincorsa della destra su questi terreni. Su come si sia accettata una visione della politica centrata sui salotti televisivi e sui sondaggi e sull'adeguarsi agli umori, anche a quelli più sbagliati, della popolazione. Su come anche la sinistra più vicina al mondo dell'antirazzismo, in tanti casi abbia sacrificato la propria nettezza sull'altare delle compatibilità e delle mediazioni istituzionali e che, anche a partire dall'attuale campagna elettorale, si dica con chiarezza che tali errori non saranno più ripetuti. E' il minimo che si possa fare.

venerdì 15 maggio 2009

berlusconismo & bipartitismo imperfetto


Mancano tre settimane alle elezioni e già mi viene voglia di scrivere qualcosa su questa strana Italia che si prepara ad acclamare (ancora una volta) il suo imperatore di carta (o di cartone, tanto fa lo stesso). Il Pifferaio di Arcore è da 15 anni in continua e perpetua campagna elettorale e quindi non ha bisogno di affilare le armi della comunicazione e della propaganda politica per potersi presentare davanti ai propri elettori. Anche l'Italia è in campagna elettorale permanente, con brevi intervalli. Così è difficile capire quando inizia una campagna elettorale specifica. Quella per le europee è iniziata a febbraio, col caso Englaro? Oppure quando Franceschini è salito alla segreteria del Partito Democratico annunciando che mancavano appena cento e più giorni al voto? O è iniziata ai primi d'aprile, col terremoto in Abruzzo? Comunque sia, nonostante la lunghezza, è una campagna elettorale fiacca. Come si dice nel calcio, non c'è partita. Si sa che il Pifferaio vincerà, si tratta solo di vedere in che misura. Ci sarà da valutare il consenso attuale del PD, di vedere se la sinistra frammentata arriverà al miracolo del quoziente. E così la domanda di fondo che ci si pone è se stiamo tornando al bipartitismo imperfetto della Prima Repubblica: il primo partito sempre al governo (ieri la DC, oggi il Popolo della Libertà) e il secondo partito sempre all'opposizione (ieri il PCI, oggi il PD). Questa possibilità è legata a una seconda questione, che non bisogna assolutamente sottovalutare. La questione è che il Caimano ha trasformato le consultazioni italiane in un permanente referendum improprio sulla sua persona. Ma mentre i referendum autentici hanno un risultato chiaro (o si vincono o si perdono), magari non raggiungendo il quorum come nel giugno 2005, i referendum impropri si interpretano. E il Pifferaio non sempre li vince, ma comunque non li perde mai, finchè rimane sulla scena. Seguiamo la sua interpretazione. Afferma di aver messo ko, uno dopo l'altro, i suoi antagonisti del centro-sinistra: Occhetto, D'Alema, Amato, Rutelli, Prodi, Veltroni. In realtà, con Prodi ha perso elettoralmente due volte. Ma, nei referendum impropri, Prodi è uscito di scena e il Caimano vi campeggia. Sono fuori anche Amato, Occhetto, Veltroni, mentre D'Alema e Rutelli non sono più in competizione. Nell'interpretazione berlusconiana, avallata dai media, il premier i referendum impropri li ha vinti tutti. Ciò nonostante il vincitore ha un cruccio. Traspare dalle sue stesse parole. La grande maggioranza degli italiani lo ama, ma quelli che lo votano sono meno della metà (in termini di iscritti alle liste elettorali molto meno: poco più di un terzo). Continua a ripetere che vorrebbe almeno il 51 per cento dei voti validi. Il referendum improprio rimedia al cruccio. E rimedia in questo modo: il Pifferaio vince, anche se personalmente ha solo il 21% dei voti (come nel 1994) o il 29% (come nel 2001). Vince e forma il governo. Se perde, domina la scena politica coi media, mentre i vincitori dei referendum impropri barcollano: formano tre governi tra il 1996 e il 2001 (Prodi, D'Alema, Amato), per poi inventare un quarto concorrente (Rutelli); e fanno cadere Prodi in un anno e mezzo. Nell'ultimo referendum improprio, il Pifferaio prende il 37% dei voti. La distanza col 33% di Veltroni non è incommensurabile. Ma dopo tre lustri dalla discesa in campo, i giochi sembrano fatti: tutti i media affermano (Emilio Fede in testa) che il beato Silvio ha stravinto, perché la sinistra scompare dal Parlamento e il PD (riformista, ma non di sinistra, secondo Veltroni) ha toccato il massimo, mentre la destra può espandersi ancora: si ripiomba nel bipartitismo imperfetto. Poichè il sistema politico italiano dal 1994 funziona così, mi stupisce che Franceschini abbia impostato la sua campagna elettorale sostenendo che il Pifferaio inganna gli italiani, perché si presenta ovunque, pur sapendo che non andrà al Parlamento europeo. Non è su questo che il premier inganna gli italiani. I suoi elettori vogliono votare per lui, vogliono il suo nome sulla scheda, perchè sanno di votare su un referendum improprio sulla sua persona, si tratti della Sardegna o dell'Europa. Se si capisce che le elezioni sono referendum impropri, si può elaborare una strategia alternativa, che metta in difficoltà chi li promuove. Se non lo si capisce (e la sinistra sembra non averlo capito), a tale strategia neanche ci si pensa. Essa non può essere l'antiberlusconismo logoro che ha toccato il massimo dei voti nel 2006: e neanche il fingere, veltronianamente, che l'avversario non esiste se lo si definisce il principale rappresentante dello schieramento avverso. Questa strategia non è una ricetta pronta. Ma dovrà partire dalle cifre. Dal contare bene i voti, come non è stato fatto né nel 2008 (quando il beato Silvio ne perse un milione al Nord, andato alla Lega), né in Sardegna (quando ne ha persi 170.000 in meno di un anno). Contare bene i voti, perché il premier vincerà, come sempre, il referendum improprio. Ma è il consenso effettivo di cui dispone che va misurato. E non certamente misurato dai suoi prezzolati sondaggisti...

domenica 10 maggio 2009

la colonna (leghista) infame


C'è poco da esultare, secondo me, come sta facendo negli ultimi giorni il ministro leghista dell'Interno, razzista nell'animo e nella mente. La gestione di Roberto Maroni del problema dei clandestini, ma soprattutto dell'ultimo ping-pong con la Libia per rispedire quei disperati e stremati cittadini dalla pelle diversa dalla nostra e solo per questo meritevoli, secondo il Maroni-pensiero, di non accoglienza sulle nostre italiche coste. E' proprio vero, l'Italia sta vivendo una tragedia. Perché da un lato il presidente del Consiglio offre materia da avanspettacolo e i suoi avvocati in tv ne difendono il diritto ai lazzi; dall'altro il suo ministro dell' Interno dà al Paese un volto feroce che getta la gente nel pianto. Quello che è avvenuto sulle due motovedette della Marina che andavano a scaricare i profughi in Libia, e che gli stessi militari hanno raccontato (ma uno di loro ha detto che mai oserà raccontarlo ai suoi figli), scrive una pagina d'infamia nella storia del nostro Paese. Ha detto uno dei protagonisti che è stato l'ordine più infame che abbia mai eseguito. Ora deve essere chiaro che questa infamia non ricade tanto su chi ha eseguito gli ordini, e non è nemmeno solo della Lega, che quegli ordini ha voluto e impartito, ma ricade su tutto il Paese: perché la Lega non solo è al governo, ma ha le chiavi del governo, è una sola cosa per confluenza di interessi col presidente del Consiglio, ha il comando delle forze dell'ordine, sia militari che civili, ed esprime pertanto al massimo grado la politica italiana, non nella sua continuità, ma nel suo cambiamento, avendo lo stesso ministro Maroni definito come una svolta storica l'eroica operazione navale del Mediterraneo. Per questo cambiamento bisogna trovare una parola nuova, tanto è nuova una politica che nell'Italia repubblicana mai aveva tirato su qualcuno per schiacciarlo, mai aveva atrocemente ingannato degli infelici che credevano di essere stati salvati, mai aveva infierito su uomini vinti, donne incinte e bambini innocenti reduci da cinque giorni d'inferno senza acqua né cibo su barconi diretti ma mai arrivati in Europa. La parola che accompagna questa nuova fase della politica italiana (che non si attua solo per mare) è crudeltà. Vuol dire che la nostra politica non solo è inadeguata, fatua ed ingiusta, ma sta diventando crudele. E sta diventando crudele proprio perché è inadeguata, frivola ed ingiusta: perché lascia che l'Italia si impoverisca senza fare niente; perché non difende e nemmeno prende in considerazione il diritto al lavoro; perché non gliene importa niente di chi non ha casa; perché promette miracoli ai terremotati ma i soldi non li dà perché li aspetta dalle lotterie e non dalle tasse; perché butta fuori dalle scuole che non sono dell'obbligo i giovani clandestini preferendoli sui marciapiedi piuttosto che in classe. E tutto ciò crea un senso di insicurezza e di malessere nei cittadini, fomenta l'idea che sia dato agli stranieri quello che hanno perduto loro e scatena la guerra tra poveri. Per questo motivo dovrebbero andare insieme politiche di sviluppo e politiche di accoglienza. E dove il diritto non è ancora in grado di comprendere le nuove realtà, è la politica che lo deve fare. E questo chiama in causa l'Europa. Perché i migranti, i richiedenti asilo che si affidano al mare è in Europa che vengono. Se noi li respingiamo, è l'Europa che li respinge. Dice Fassino che è proprio questo che vuole l'Europa. Ma allora bisogna cambiare l'Europa, per questo sono importanti le elezioni europee. Dovrebbe essere lei la prima a sanzionare e a impedirci comportamenti lesivi dei diritti umani degli stranieri. E questi dovremmo smettere di chiamarli extra-comunitari, cioè di definirli mediante un'esclusione, un non-essere. Se l'unità europea divide gli esseri umani in comunitari ed extracomunitari, vuol dire che essa stessa non è una comunità, è un bantustan, una fortezza, una sorta di apartheid. Se abbiamo fatto un mondo globale, l'Europa non si può salvare da sola. Se si fa conoscere come crudele, subirà crudeltà; se non farà giustizia agli altri non troverà giustizia per sé.

auguri alle mamme (che amano troppo)


Sono cosciente che con questo post che mi accingo a scrivere non farò di certo la felicità di quei miei (pochi) lettori interessati alla politica e al sociale, ma so di certo che farò la felicità della mia mamma e di tutte le mamme. Sarà magari un post infarcito di retorica e di melensa nostalgia per il ricordo di quando da piccolo mi piaceva stare attaccato alla gonna della mia mamma, ma non allarmatevi: non scriverò di tutto ciò. Voglio semplicemente fare gli auguri in questo giorno dedicato a tutte le mamme, quindi anche alla mia che poche settimane fa sono riuscito, dopo averne fiaccato la resistenza, a far incontrare in tv la sua adorata conduttrice preferita. E' stato un pò come averle fatto il regalo in anticipo. Ma torniamo alle mamme, e al titolo che ho dato a questo mio post. E' vero, secondo me le mamme amano troppo. I propri figli soprattutto. Lo dico dopo aver letto un bellissimo libro scritto da Osvaldo Poli, conosciuto psicoterapeuta. Il titolo del suo saggio (perchè di questo si tratta, a mio parere) è Mamme che amano troppo (Edizioni San Paolo, 232 pagine, 13 euro) e si legge tutto d'un fiato. Forse per gli addetti ai lavori la sensazione è più forte, ma anche nel caso degli altri genitori un momento di fastidio sarebbe comprensibile: un altro libro sui genitori, su come diventarlo, esserlo, farlo bene? La tentazione, sono sincero, è di passare allo scaffale dei libri gialli o, meglio ancora, dei fumetti. E invece no. Mamme che amano troppo bisogna leggerlo. Impararlo a memoria. Digerirlo e soprattutto ruminarlo. Anzi, le parole di Osvaldo Poli bisognerebbe registrarle e riavviarle ogni volta che il virus della mamma buona attacca, ogni volta che la tentazione di fare al posto del figlio, di evitargli un dispiacere o una fatica, di raccontarsi che lui è così sta per erodere gli ultimi sprazzi di razionalità. Bisogna ascoltarlo non soltanto per il bene dei propri ragazzi, ma anche per quello della società, per non crescere piccoli tiranni e figli bamboccioni, come recita il lapidario sottotitolo. Il filosofo statunitense Elbert Hubbard (http://it.wikiquote.org/wiki/Elbert_Hubbard), che sul finire dell’800 non si preoccupava di gelare l’uditorio spiegando che «un amico è uno che sa tutto di te e nonostante questo gli piaci», e che «quando i genitori fanno troppo per i loro figli, i figli non faranno abbastanza per se stessi», si sentirebbe un generoso se venisse a conoscenza della ricetta dell’autore contemporaneo per trasformare le mamme che amano troppo in donne davvero sagge: «La guarigione coincide con la capacità di approntare una pozione magica, cucinata al fuoco del dolore con quattro ingredienti segreti: non posso farci niente, devo chiedere di più, è necessario soffrire per capire e, infine, bisogna essere se stesse». Ma prima di passare alla medicina occorre avere le idee chiare sulla malattia. Un’occhiata ai virus materni (ma anche paterni) descritti nelle pagine del saggio di Osvaldo Poli, in realtà, non lascia molto scampo alle mamme d’oggi che, del resto, avranno tanti difetti, ma non mancano di un pregio (se usato nei giusti limiti): quello di mettersi in discussione. Anzi, al posto di una scatola di cioccolatini o di una rosa, per la loro festa quest’anno potrebbero pensare di accettare in regalo un libro che sentenzia così: «Il nemico per eccellenza di ogni madre è il dolore del figlio».
Spiega lo psicoterapeuta Poli, che raccoglie da anni le inquietudini, le domande e lo scoraggiamento di tanti genitori, sia nei colloqui individuali che nelle tante occasioni di incontro pubblico: «Tutto il sentire materno è originato da questa preoccupazione: evitare al figlio di star male. Non che i padri non abbiano lo stesso desiderio, ma è il tipo di aiuto offerto a essere diverso. Il sentire femminile muove dal presupposto che i figli siano oggetti così fragili da non sopportare il dolore e che quindi vadano preservati a ogni costo, facendo scudo con la propria dedizione anche alla fattispecie di dolore più banale: la normale fatica della vita».
Mamme che aiutano troppo, che corrono a casa perché «domani abbiamo latino», che si fanno in quattro per appianare ogni problema e proteggere da ogni rischio, che si affannano a spiegare a insegnanti ed educatori che «lui è così, va preso così... preferisce cosà...». Mamme che sognano di sostituirsi, sedersi nel banco, buttarsi in piscina, entrare in campo al posto del bambino, a cui filtrare solo gioie e soddisfazioni. Le mamme dovrebbero diventare un po’ padri, proprio come quelli che incoraggiano ma lasciano che i figli affrontino difficoltà e problemi, convinti che non tutte le fatiche e le sofferenze siano distruttive e che, anzi , aiutino a crescere.
«Basterebbe applicare le virtù cardinali», consiglia Poli, che è non solo fine conoscitore d’animi ma anche arguto scrittore, «perché rappresentano altrettanti criteri di verifica dell’autenticità di un amore equilibrato. La prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza ne salvaguardano l’autenticità». La prudenza permette di valutare con realismo, non filtrato dalle proprie paure né deformato dai propri bisogni, il carattere dei figli e le loro motivazioni, di vederli così come sono anche nei loro aspetti deludenti, di non darsi spiegazioni consolatorie del fatto che non studino, che non leghino con i compagni, che disturbino in classe, o che vogliano avere sempre ragione.
«La prudenza ricorda che non c’è amore senza verità, ma l’amore non può essere autentico senza giustizia, la virtù che richiede il rispetto della reciprocità. Come può ritenere di voler bene chi non riconosce e non rispetta i diritti dell’altro? Nello stesso tempo, l’amore autentico richiede anche di essere forti e fermi in alcune decisioni educative, anche se non sono capite o richiedono una dura lotta contro le proprie debolezze affettive. Facendo prevalere il bene del figlio sul proprio desiderio di piacere o sui propri sensi di colpa, si onora la virtù della fortezza». In buona sostanza ricordarsi che il compito dei genitori non è essere amici dei figli, e tantomeno simpatici, aiuta tantissimo quelli che sanno bene quanto sia più facile concedere piuttosto che dire no, lottando contro la paura di essere considerati cattivi o contro il senso di colpa.
Ma il problema è che nemmeno prudenza, giustizia e fortezza sono sufficienti perché, come mette in guardia Poli, «è necessaria anche la quarta e la più negletta delle virtù: la temperanza, che esprime la necessità della misura, in opposizione a tutto ciò che appare esagerato, eccessivo, che supera il limite invisibile, ma reale, del conveniente. La protezione eccessiva dei figli può diventare un’opprimente campana di vetro, mentre la misura distingue l’accontentare dal viziare, stare vicino dall’essere appiccicosi e impiccioni. La disponibilità a essere accanto, aiutare, venire incontro ai bisogni dei figli deve avere una misura. La virtù della temperanza ricorda che la mancanza di misura ha il suono di una moneta falsa, e che amare davvero è sostanzialmente diverso dall’amare troppo». Insomma, volete un consiglio d'amico: regalate alle mamme questo libro di Osvaldo Poli. Non ve ne pentirete. Post scriptum: Osvaldo Poli non è un mio consanguineo...

sabato 9 maggio 2009

le amicizie pericolose


Che il nostro presidente del Consiglio fosse un tipo poco raccomandabile (nel senso che non ha bisogno di raccomandazioni, sia chiaro...) lo si sapeva. Ma che avesse anche frequentazioni poco chiare e poco adatte alla sua carica istituzionale francamente non lo sapevo. Ora, sono due i casi: o chi vi scrive è un perfetto imbecille e non si accorge se un uomo politico frequenta o meno persone misteriose e ragazze minorenni, o chi lo fa (in questo caso il presidente del Consiglio) è così scaltro e furbo da non darlo a vedere. Personalmente opto per la seconda ipotesi. E così, dopo questo incipit, torno a scrivere del Pifferaio relazionando il tutto alla puntata di giovedì sera di Annozero (http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-11d6cfec-1cc3-46fc-9488-a0ab9243c00c.html?p=0). Perchè dico questo? Semplicemente perchè, forse, a qualcuno è sfuggito il reale anello di congiunzione tra le polemiche innescate da Lady Veronica, sulla frequentazione dell'ex marito con la minorenne dall'ugola d'oro (ma non solo quella, presumo...) che lo chiama anche papi, e l'amicizia quasi trentennale che lega il papà della ex minorenne con il Pifferaio. Più si discetta di veline e più la bufera vira sul tema della dignità offesa delle donne. Più ci si infila nella denuncia morale del rapporto tra politica, lustrini e presunti vizietti privati di questo e di quello, più ci si allontana dal nocciolo del caso Casoria, che è grosso come una casa e si tinge sempre più di giallo. Nella puntata di Annozero di giovedì sera, è stato l’avvocato e amico del premier, Niccolò Ghedini detto anche faccia da pirla, ad aver involontariamente evidenziato, esibendo argomenti di rara debolezza e inverosimiglianza in difesa del Pifferaio, il punto più oscuro e debole di tutta la storia: l’amicizia tra Elio Letizia (il papà della ex minorenne) e il Pifferaio stesso, legati da un segreto che il papà di Noemi evoca ma rifiuta di spiegare: «Non mi faccia entrare in profondità», è il messaggio cifrato con cui ha finora risposto ai cronisti. Ghedini faccia da pirla, scaraventato due sere fa dal Pifferaio nella fossa dei leoni di Michele Santoro, ha aggiunto dubbi ai dubbi. Nel tentativo di spiegare il mistero del nodo dell’«amicizia» tra i due, da buon avvocato s’è attestato sulla prima versione fornita da Berlusconi, per quanto contraddittoria (prima ha detto che Elio «era l’autista di Craxi» poi ha negato di averlo mai detto), confusa e a tratti reticente. Nel farlo, Ghedini ci ha messo un po’ del suo e ha esagerato, aggravando così la già traballante ricostruzione del premier: «Berlusconi non è solo il capo del governo – ha detto Ghedini – ma è anche il leader di un partito. C'è forse da stupirsi se un quadro locale del partito, un attivista anche di seconda fila come il signor Letizia, si sia esposto per segnalargli alcune candidature?». Già, perché secondo il Pifferaio questo, oltre che l’invito a recarsi alla festa di Noemi, sarebbe stato l’oggetto della telefonata ricevuta dall’«amico» Elio domenica pomeriggio. Ma siccome le candidature caldeggiate al premier dal signor Letizia (del cui impegno politico nel PdL nessuno nel partito ha mai saputo nulla) erano nientemeno che quelle dell’ex questore di Napoli Franco Malvano (http://it.wikipedia.org/wiki/Franco_Malvano) e di un big forzista campano del calibro di Antonio Martusciello (http://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Martusciello), i quali per inciso dicono anche di non aver mai conosciuto il signor Letizia, alla fine l’argomento ghediniano fa più acqua che mai. Anche i sassi sanno che nelle ore in cui si chiudevano le liste europee, avere accesso ai triumviri del PdL o al Capo, assediati da 400 richieste per 78 posti, era impossibile per ogni comune mortale. Ma il signor Elio Letizia, con tutta evidenza, non è un comune mortale: certo non lo è agli occhi del Pifferaio, che a sua volta non vuol dire come e dove ha conosciuto Elio. «Fatti suoi», ha detto Ghedini. E invece no: fatti anche nostri, perché qui si parla del capo del governo, un uomo in genere loquacissimo che invece adesso si cuce la bocca quando Elio allude al «segreto» che li legherebbe. Fatti nostri anche il vero e proprio giallo sul sopralluogo con bonifica di Villa Santa Chiara di Casoria, zona ad alto rischio criminale (il comune fu commissariato due anni fa per camorra), dove s’è svolta la festa di compleanno di Noemi Letizia, la preferita di papi. Nel preparare l’ultima puntata di Annozero, il team di Michele Santoro viene a sapere che il locale era stato bonificato dagli apparati di sicurezza 24 ore prima dell’arrivo del premier (che sostiene invece di aver fatto un’improvvisata, rivedersi la puntata di Porta a Porta please, http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-110c3bb4-b165-43a4-9fdc-23f81fb926f7.html). Santoro chiede per scrupolo conferme: la questura smentisce. Della storia del sopralluogo a quel punto non viene riferito in trasmissione. Del resto, direbbe Ghedini, si tratta di una classica non notizia. E invece no: se il luogo dell'incontro fintamente improvvisato non è stato bonificato nè sabato (come esclude la questura e come avevano invece riferito altre fonti) nè domenica (i sopralluoghi sono invasivi, richiedono tempo e nessuna delle fonti interpellate ha notato attività ispettive nelle ore precedenti all’arrivo del premier), quando è stato controllato il locale? Quali misure di sicurezza proteggono spostamenti e incontri pubblici del capo del governo? «Fatti suoi» o non anche del Viminale e dei servizi? Chissà se ci sarà qualcuno che avrà voglia di vederci un pò più chiaro in futuro...

c'era una volta la fabbrica...


Questo post è dedicato a tutti quei lavoratori che hanno conosciuto la vera fatica, il vero sudore della fronte, la reale sensazione di crollo fisico al termine della giornata lavorativa. C'era una volta la fabbrica. C’erano una volta le tute blu. La fabbrica come elemento identitario («Lavoro alla Falck, all’Alfa Romeo, alla Pirelli…»), le tute blu portate con orgoglio, come una divisa che segnava un’appartenenza a un gruppo e a una classe sociale. Tutto finito. All’apparenza, però. Le fabbriche ci sono ancora, anche se si sono trasformate. L’industria manifatturiera, soprattutto quella di piccole e medie dimensioni, continua infatti a essere un pilastro dell’economia italiana. E ci sono ancora gli operai. Però sono pochi quelli che se ne fanno vanto di esserlo. Il fatto è che oggi lavorare in fabbrica non è più di moda e la maggior parte dei giovani ha un’idea molto vaga di cosa significhi stare otto ore al giorno nel reparto di produzione di un’azienda. A ribadirlo è una ricerca curata dalla IPSOS (http://www.assirm.it/ipsos.htm), pubblicata in un interessante volume di Antonio Calabrò, da poco giunto in libreria, dal titolo Orgoglio industriale. «Gli italiani – si legge – amano poco sentir parlare di fabbrica, lavoro meccanico, tute blu operaie, fatica. Accettano meglio la parola industria, pensando però ai laboratori, agli studi di progettazione e soprattutto al made in Italy della moda e del lusso. Tra i giovani, i giudizi sono ancora più netti: vogliono un impiego d’ufficio, magari a due passi da casa, con un capo simpatico, scarse responsabilità e un orario ridotto, "fino alle cinque, così non sono troppo stanco e ho tempo di uscire la sera". Sino all’estremo: "meglio lavorare in un call center che in fabbrica"». Ma come si è arrivati a questo punto? All’origine c’è soprattutto, a mio modesto avviso, un problema di rappresentazione, legato all’immagine che i media (ma anche la politica, il mondo imprenditoriale e sindacale) hanno dato e stanno dando dell’Italia e del suo comparto industriale. «Per anni – spiega Calabrò –, nel discorso pubblico, sono stati prevalenti i temi dei servizi, della finanza, della comunicazione, dello spettacolo, tracciando una sorta di ritratto da "Italia Grand Hotel", leggero e immateriale. Nell’immaginario collettivo, così, è stata stravolta la realtà di un Paese che, soprattutto in provincia e nelle periferie delle grandi aree urbane del Nord, restava industriale, ma non era raccontato, compreso, valorizzato. E i falsi "riti e miti" della finanza e della comunicazione hanno fuorviato soprattutto le nuove generazioni». L’indagine, realizzata tramite focus group tra giovani di Torino, Milano e Verona e interviste telefoniche a laureati e non laureati di tutta la Penisola, ha infatti rilevato che la consapevolezza di vivere in un contesto con un forte tessuto industriale è abbastanza modesta: il 67% dei laureati e il 71% dei non laureati, per esempio, non sapeva che l’Italia è il secondo Paese industriale in Europa dopo la Germania. In particolare, alla domanda su quali sono i settori portanti dell’economia nazionale, entrambi i gruppi mettono al primo posto il turismo. La piccola industria si piazza al secondo (laureati) e terzo posto (non laureati), mentre la grande industria si ferma al quinto (per entrambi), superata dal commercio e dal comparto energetico. Molto citata la filiera del lusso, con i marchi che promuovono l’immagine dell’Italia nel mondo (da Armani alla Ferrari, dal Parmigiano Reggiano al Brunello, dalla Pirelli alla Brembo). Gli intervistati non sembrano avere neanche troppa fiducia nella possibilità di trovare un’occupazione nel manifatturiero, a differenza che in settori come il terziario e i servizi, il turismo e il commercio. I ricercatori hanno indagato anche le caratteristiche del "lavoro ideale", che deve essere "creativo", "ben remunerato", "non troppo stressante", "deve realizzarti", avere "orari ben definiti", svolgersi in un contesto ambientale "con colleghi simpatici e capi comprensivi". Da queste premesse, si legge nel volume, non stupisce che il lavoro operaio sia considerato tra i più brutti che si possano fare, l’ultimo gradino della scala sociale. L’operaio rappresenta una sorta di condanna professionale, la fine di tutte le aspirazioni. Mentre l’operatore di call center, il receptionist, l’impiegato di infimo livello sono comunque professioni ritenute socialmente più accettabili. «Se dico che faccio l’impiegata è un po’ più elegante, mi vedo in camicetta e pantaloni, invece come operaia mi vedo con la tuta blu con scritto FIAT: è il lavoro meno qualificato che ci sia». Questo atteggiamento riflette un deficit di conoscenza sulle mansioni operaie (è più qualificato un saldatore o un addetto al call center?) e sul mondo dell’industria in generale. La fabbrica, nel senso comune, ha un’immagine negativa. A essa gli intervistati associano termini come "fatica, sforzo, noia, depressione, ambiente nocivo, tute sporche, catena di montaggio, ciminiere, inquinamento". La situazione migliora se invece di fabbrica si parla di industria o azienda manifatturiera: «Azienda mi viene in mente un dirigente, fabbrica mi viene in mente un operaio». La fabbrica, sottolinea l’IPSOS, «sarebbe insomma il lato sporco, buio, sommerso dell’azienda». Se lo scenario è questo, il lavoro da fare per riconsegnarle dignità è notevole: «Serve dare nuovo appeal alla fabbrica», scrive Calabrò. Che aggiunge: «Il salto da fare, oggi, riguarda la realtà del lavoro nell’industria, da qualificare ancora e migliorare. E poi la rappresentazione e la comunicazione. Un recupero consapevole della memoria. E una rivendicazione del ruolo contemporaneo». In alternativa (e questo è un mio semplice consiglio per i giovani di domani) si potrebbe comunque lavorare in Mediaset...

giovedì 7 maggio 2009

i valori etici (calpestati) del Pifferaio


Questa è una serata speciale. Attendevo con impazienza l'inizio di Annozero e l'attesa non è andata delusa. Affatto. Mentre sto seguendo il programma di Michele Santoro (di cui mi occuperò con apposito post) in contemporanea sto scrivendo questo pezzo. Fortunatamente ancora riesco a fare (alla mia veneranda età) due cose nello stesso momento. Chiedo scusa in anticipo se ancora una volta torno a parlare del Pifferaio di Arcore e della storia del divorzio da Lady Veronica, ma in questa specifica occasione voglio allargare il mio piccolo ragionamento a ciò che può intersecarsi con la morale e con l'etica. Capisco che sono due termini in antitesi con il Pifferaio, ma non ci posso fare niente, non dipende certo da me. Dunque, è vero che a volte non riusciamo a vedere le cose più evidenti che abbiamo davanti agli occhi, che si ripetono con cadenza periodica. E' altrettanto vero che quando meno ce lo aspettiamo, dopo mesi di teorizzazioni laiciste (con relativi anatemi) sulla separazione tra morale e diritto, sulla libertà individuale intangibile, sul fatto che ciascuno deve poter fare tutto ciò che vuole, all’improvviso i giornali appaiono intrisi di un afflato etico, di spirito e sensibilità morale che (secondo i punti di vista) stupiscono o confortano, affascinano o sconcertano, e lasciano una sola certezza. Detto ciò, credo che la rivincita dell’etica durerà finché la convenienza lo richiede, poi tutto tornerà come prima. È come il remake di un film già visto. Tempo addietro, l’Italia fu investita da calciopoli, e sulla stampa veniva chiesto a gran voce che si restaurassero le virtù calpestate, la lealtà, la prudenza, il disinteresse, e si colpissero i peggiori vizi dell’inganno, del mercimonio, della slealtà. Oggi, i maggiori protagonisti di quello scandalo sono di nuovo tra noi come censori di vicende calcistiche. Altra volta si pretese che la Chiesa ricordasse con insistenza ai fedeli che chi non pagava le tasse commetteva peccato, e sostenesse la crescita delle entrate fiscali. La pretesa si esaurì presto perché nel frattempo gli stessi governanti lamentavano che la Chiesa reclamasse il rispetto di principi etici essenziali in relazione a proposte di legge sulla famiglia e sulla bioetica. La stupefacente contraddizione tra la pretesa sacralità delle tasse e la volontà di abolire la sacralità della famiglia coprì di rossore qualcuno e lo rese afatico. Infine, l’ultima crisi economica mondiale ha visto grandi e piccoli uomini di affari battersi il petto, chiedere perdono per l’avidità e la cupidigia del passato, impegnarsi per il futuro ad essere virtuosi, trasparenti, altruisti. Oggi siamo dentro una nuova bolla etico-speculativa. Nelle polemiche derivanti da una vicenda familiare (dai cui protagonisti voglio prescindere totalmente) risulta, perfino in giornali noti per un convinto laicismo, che la famiglia è il massimo valore, e che gli uomini pubblici debbono dare l’esempio ai cittadini in quanto a fedeltà e coerenza con i valori etici che sono a fondamento dalla società e della famiglia stessa. I doveri di lealtà nei confronti del coniuge, di rispetto dei figli, non soltanto comportano la fedeltà coniugale in senso stretto (e l’unità della famiglia), ma esigono un comportamento ambientale che non vulneri neanche indirettamente la sensibilità dei familiari tutti. Ai giovani, poi, si devono prospettare valori solidi, non illusioni mediatiche. L'intera società deve ricostruire i propri valori etici di riferimento. In buona sostanza propositi saggi ed edificanti che sarebbero certamente condivisi da uomini di sicura fede e dai principii morali indiscussi. Chiunque può comprendere che una simile situazione presenti degli aspetti singolari. C’è naturalmente un risvolto positivo che va colto. Questo nostro Paese, compresi coloro che conducono le più fiere battaglie contro ogni contaminazione etica, è permeato di valori cristiani fin nell’intimo al punto che, quando torna utile, riaffiora una cultura biblica insospettabile ed encomiabile (che rivendica sincerità, speranza, amore per il prossimo e per la famiglia, lotta all’avidità, la cupidigia, ed altro). Si tratta di un fatto molto positivo perché rassicura che nelle profondità dell’animo le nostre popolazioni sono molto più sane, pulite, ricche di voglia di far bene, di quanto ci si possa immaginare. C’è, però, il risvolto opposto, che provoca docce fredde intermittenti, per il quale si mischiano con qualche levità moralismo, ipocrisia, opportunismo. Infatti, quando non torna più utile, l’intero bagaglio etico riscoperto ed esibito a gran voce viene abbandonato e rinnegato nello spazio di un mattino per tornare a rivendicare il fatto che la politica non ha nulla a che vedere con l’etica, il diritto men che mai, ciascuno deve poter fare ciò che vuole anche nelle più importanti scelte di vita che riguardano la famiglia, la procreazione, l’inizio e la fine della vita, e via di seguito. È una forma di schizofrenia che è giusto registrare, ma che deve in una certa misura anche tranquillizzare per il fatto che, ogni qualvolta (per qualsiasi motivo) si risveglia la coscienza, nessuno può fare a meno di tornare alla fonte di una sapienza antica che sorregge il vivere comune e fornisce regole, principi, orientamenti per impostare una vita buona. A pensarci bene, non è poco. Chissà cosa ne pensa in proposito il Pifferaio di Arcore...