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martedì 28 aprile 2009

dove sta il trucco?


A volte mi chiedo se certi commentatori politici siano così poco intelligenti e sbadati già dalla nascita o ci diventino con il passare degli anni. Offrire su di un piatto d'argento, al presidente del Consiglio, la testa e la dignità calpestata del segretario del cosiddetto partito di opposizione per il famoso invito a partecipare alle manifestazione del 25 aprile, è o non è una sorta di tacita affermazione che tutti gli operatori dell'informazione (diciamo quasi tutti, altrimenti qualcuno mi querela) sono allineati e coperti all'ombra del Pifferaio di Arcore? Personalmente credo proprio che sia così. Poi magari ci penseranno i fatti, ci penserà la campagna elettorale, a dissipare presto l’angoscia che da qualche giorno si è impadronita di quelli che, se il Caimano partecipa alla festa nazionale del 25 aprile, proprio non possono fare a meno di chiedersi dove abbia sbagliato il Partito democratico o dove magari sia il trucco. Che volete, siamo un Paese fatto così. Se Franceschini chiede al premier di partecipare alle manifestazioni e il premier partecipa, scrivono che è stato un boomerang. Se il leader dell’opposizione chiede il ritiro di una proposta di legge assurda e sbagliata, che equipara i repubblichini ai partigiani, e il capo della maggioranza la fa ritirare, analizzano l'errore tattico commesso dal capo dell’opposizione. Per questi osservatori, commentatori e politici (o presunti tali), vedere il capo del governo al fianco del capo dello Stato nel giorno della festa più importante per la Repubblica non è un evento normale, qualcosa di cui dire al limite che, dopo quindici anni, era ora. No, ci vedono una diabolica trappola per rubare voti al Partito democratico. Dicono dove sta il trucco? Alcuni fanno così perché sono fan del Pifferaio e lo posso anche capire, capita: sono gli stessi che quando al 25 aprile il centrosinistra ci andava da solo, la facevano sembrare una colpa, quasi che se la Liberazione non era più la festa di tutti dipendesse da chi c’era e non da chi si dava malato. Altri illustri commentatori (o presunti tali) lo fanno perché sono talmente antiberlusconiani da aver paura del Caimano anche se dice una cosa giusta, anche se dà loro ragione. Rimpiccioliscono la Resistenza al punto che se il beato Silvio si mette finalmente il fazzoletto dei partigiani al collo non sono contenti: come se il Pifferaio potesse portargliela via, la Resistenza. Dice: ma vuole cambiarle nome, chiamarla festa della Libertà. Dice: ma fa così perché vuole il Quirinale, perché c’è la campagna elettorale, per non farsi scavalcare da Fini. Possibile, probabile. Ma non certo. Vorrà dire che se il Pifferaio di Arcore si rimangerà quel che ha detto, se cercherà di fare lui del 25 aprile una festa di parte, della sua parte, il Partito Democratico avrà degli argomenti in più per spiegare chi è che gioca con la memoria di tutti. Ma scommettiamo già da adesso che qualcuno ci spiegherà che in fondo, se il Caimano ha preso tutti in giro a proposito del 25 aprile, la colpa è del PD? Accetto scommesse...

domenica 26 aprile 2009

abbiamo un nuovo partigiano!


Non vorrei apparire blasfemo o impudente nè tantomeno offensivo nei confronti di un presidente del Consiglio, ma se il buon Eugenio Scalfari lo giudica il nuovo padre padrone (http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/cronaca/berlusconi-25-aprile/scalfari-25-aprile/scalfari-25-aprile.html) io lo giudico semplicemente, sulla base dei nuovi avvenimenti storici appena avvenuti, il nuovo partigiano. Il comizio di ieri ad Onna del Pifferaio partigiano mi ha lasciato alquanto dubbioso sulla vera natura motivazionale alla base della sua nuova conversione sulla via delle bandiere rosse, storicamente a lui indigeste. I due eventi che hanno coinvolto nel passato e nel presente lo sfortunato paesino (strage nazista di rappresaglia del 1944 e terremoto del 2009) si sono uniti drammaticamente ieri, giorno della Liberazione e giorno 20 dopo il terremoto, secondo il nuovo calendario aquilano. Un'occasione troppo grossa per i maggiori leader politici (ma in particolar modo per il Pifferaio) che ieri sono passati tutti, o quasi, da Onna. I vigili del fuoco hanno lavorato sodo per rimuovere le macerie pericolanti per via dei nuovi crolli che in paese si sono verificati dopo la scossa di magnitudo 4 registrata tre giorni fa. Eppure, nonostante la messa in sicurezza, entrare ad Onna ieri non era possibile per tutti coloro che volevano partecipare alla cerimonia. Sono stati in molti infatti ad essere bloccati all'ingresso del paese da un cordone di militari. Il nuovo presidente partigiano (che indossa il tricolore della brigata Maiella come da foto esplicativa) si è preso come al suo solito tutto lo spazio. Pare che qualcuno ad Onna abbia baciato la mano del premier: «Solo tu puoi salvarci!», ha detto un'anziana signora che ha riconosciuto il Caimano per quello che ieri era: un Re. La visita del premier come quella di Franceschini e Casini, è stata presa quantomeno con freddezza da chi è rimasto nella tendopoli dell'aquilano. Qui fino a ieri (prima giornata di sole) la gente era più attenta a trovare il modo di non fare entrare acqua e fango nelle tende e a come fare per scrollarsi di dosso l'umidità che entra nelle ossa. A non prendersi una polmonite, a resistere nonostante tutto. Se avesse avuto il tempo di pensare, oltre alle condizioni materiali essenziali, avrebbe pensato probabilmente a come fare per ricostruirsi una casa con 150mila euro (tetto massimo) o riaggiustarla con 80mila (tetto massimo). A decodificare i messaggi del governo, a chiedere quali sono i 15 siti individuati dove andranno a vivere. Ma la situazione nelle zone terremotate non permette di pensare al di là di adesso. Nelle tendopoli è difficile capire cosa sta succedendo all'infuori delle reti che sono sorte velocissime e circondano tetramente molti campi. Tutto il teatrino mediatico, qui, sembra una gran presa in giro. Compreso il G8 che sembra già incombere, nella sua surrealità. Il sipario dei media tra gli sfollati, paradossalmente è calato dal giorno della scossa. Le persone che sono qui al centro dei riflettori non vedono la televisione. Hanno volti abbronzati dal sole che a volte batte forte in questa strana primavera e odori forti di umanità che vive concentrata, insieme. Ma mentre qui la vita è frugale il resto del mondo continua voracemente a viaggiare sui suoi binari postindustriali e a parlare dell'Aquila, sull'Aquila. La liberazione e l'antifascismo hanno un significato, certo, che va oltre gli eventi contingenti, qualsiasi dimensione essi abbiano. Ieri a Fossa si è svolto un incontro in cui si è dibattuto della storia del territorio ai tempi della Resistenza; sono stati letti passi presi dal libro di Primo Levi "Se questo è un uomo". Una mongolfiera con un messaggio di speranza ha preso il volo per la gioia soprattutto dei più piccoli. Un comitato spontaneo ha organizzato invece una serata con tanto di cena e concertino, intitolata ReStart (Festa della Liberazione). Da quando il terremoto ha resettato la città, tutto si sta ricomponendo ad alta velocità e con molto energia. Le piccole ansie di una volta sono sopite e l'ordine delle priorità riconfigurato. Ma tutto quello che sta accadendo in questo comprensorio, fino a poco tempo fa sconosciuto ai più, forse è troppo. Bisogna dare alle persone il tempo di capire e poter riprendere la parola. E forse anche di abituarsi (con calma) alla figura del nuovo presidente partigiano...

sabato 25 aprile 2009

chiamiamo le cose con il loro nome


Non si può certo stravolgere il significato di una festa importante, di una ricorrenza così sentita come quella del 25 aprile, con il semplice giro di ruota delle parole e cambiare in un battibaleno la parola Liberazione con la parola (oramai marchiata a fuoco, purtroppo, dal Pifferaio di Arcore) Libertà come ha proposto, senza un minimo accenno di vergogna, nel suo discorso il premier a Onna. E così si è riaperta la discussione sul 25 aprile come festa di tutti gli italiani. Mi corre l'obblico di ribadire ancora una volta che il 25 aprile è la festa della Liberazione dal nazifascismo, in cui si festeggia la vittoria dell'antifascismo contro l'oppressione dei negazionisti della libertà: senza questa vittoria in Italia non vi sarebbe la democrazia. Il 25 aprile è quindi la festa in cui si ricorda e si ribadisce che l'antifascismo è il fondamento della democrazia e del vivere civile nel nostro Paese. In altri paesi europei la sconfitta del nazifascismo è stata principalmente un fatto militare, di eserciti. In Italia è stato un fatto politico, di popolo, che in nome dell'antifascismo ha contemporaneamente sconfitto la dittatura fascista e ha posto le basi per la democrazia costituzionale. L'antifascismo è a tutti gli effetti la religione civile del Paese, il punto fondante della possibile convivenza democratica tra diverse ipotesi politiche. L'antifascismo è la base materiale della democrazia nel nostro Paese. Il 25 aprile è una festa nazionale, il presupposto della nascita della Costituzione repubblicana, proprio in quanto festeggia la vittoria dell'antifascismo sul fascismo. La festa del 25 aprile è quindi diventata in Italia una festa di parte semplicemente perché gran parte degli esponenti politici che oggi governano il Paese non si riconoscono nei valori dell'antifascismo. Larga parte della destra (e segnatamente il Pifferaio) si è sempre rifiutata di dichiararsi antifascista perché si pone politicamente e moralmente in continuità con il fascismo. Al massimo, su un terreno di equidistanza tra fascismo e antifascismo. Nella lotta di liberazione la grande maggioranza dei dirigenti del PdL sarebbe stata schierata con Salò o sarebbe rimasta alla finestra a guardare come andava a finire. Proporre il 25 aprile come festa di tutti, compresi i La Russa e gli Alemanno, vuol dire svuotare il 25 aprile della sua essenza antifascista per trasformarlo nella festa dell'unità del ceto politico presente nell'attuale parlamento. Una sorta di unità nazionale dei trasformisti. Non a caso l'invito a partecipare a questa festa al Caimano è venuto dal PD, in particolare dal suo segretario che più improvvida iniziativa non poteva prendere. Il tratto saliente del centrosinistra negli ultimi venti anni è stata il costante espianto delle proprie radici, attuato sostituendo all'antifascismo l'unità nazionale. Mentre la parte maggioritaria della destra ha coltivato e per certi versi costruito e reinventato la propria tradizione, rifiutandosi pervicacemente di tagliare i ponti con il ventennio fascista. Mentre Zapatero rivendica le sue radici nell'esperienza della repubblica spagnola del '36, mentre Chirac preferisce perdere le elezioni piuttosto che allearsi con Le Pen, in Italia la destra di governo non ha confini di separazione con il neofascismo e il centrosinistra fa di tutto per scoprirsi orfano. Contro questo anacronistico abbraccio bipartisan, contro il trasformismo della sinistra moderata, mi sembra giusto sottolineare, in questa giornata, che il 25 aprile è la festa dell'antifascismo e non può quindi essere una festa condivisa.

venerdì 24 aprile 2009

è facile promettere...


Mi sembra di averlo già detto. Io sono nato in terra d'Abruzzo e ne sono estremamente fiero. Le mie radici in questo momento mi permettono di valutare e considerare con cognizione di causa i fatti e le opinioni di chi cerca di assurgere a salvatore della Patria, se non addirittura ancora di più. Dal primo istante del disastro provocato dal terremoto del 6 aprile scorso, il Pifferaio di Arcore si è presentato come l'uomo giusto al momento giusto. Ha fatto delle macerie il suo palcoscenico lanciando una campagna elettorale di straordinaria potenza. Senza senso del limite, come sempre, più di sempre, sforando questa volta ogni decenza. Ma il cinismo del premier è fuori misura, si sa, ed oggi ne sto avendo la conferma più evidente. L'uomo dalle imprese impossibili ha promesso che l'Aquila verrà ricostruita interamente e in tempi brevissimi. Ha dichiarato che entro agosto, tanto per cominciare, saranno allestite migliaia di case di legno svedesi, una baraccopoli dal nome new town (o nouvelle ville, se si preferisce) e saranno stanziati 12 miliardi per l'Abruzzo. Ha anche detto che tutti i lavori saranno a carico dello Stato. Ha dispensato queste ed altre promesse strabilianti con una teatralità fuori luogo che stride con l'austerità propria di noi abruzzesi, con la nostra attitudine alla riservatezza, a trattenere il dolore con grande dignità. A stare in silenzio quando serve stare in silenzio. Eppure il Pifferaio non si è risparmiato neppure questa volta, neppure di fronte a 70mila persone colpite al cuore, neppure di fronte alle bare, prendendosi tutto il merito possibile e immaginabile rispetto alla tempestività dei soccorsi, all'organizzazione post terremoto, all'ospitalità garantita alla popolazione negli alberghi sulla costa (stessa cosa mi pare fu fatta in Friuli nel maggio del 1976), omettendo il fatto che se efficienza nei soccorsi c'è stata, è stato soprattutto merito dei corpi dei volontari, dei vigili del fuoco e dei pompieri pagati pochi euro, della solidarietà di associazioni, gruppi, centri sociali e singoli giunta da ogni luogo del Paese e del mondo, come sempre è accaduto in simili sciagure. Il fatto è che a pochi giorni da quelle promesse il premier ha già fatto un passo indietro non di poco conto. Lo Stato probabilmente interverrà a coprire al massimo il 33% dei costi di ricostruzione. I 12 miliardi sono stata una sparata e basta. Considerando che siamo in piena campagna elettorale c'è da aspettarsi che dopo le urne a giugno di passi indietro ne farà molti altri. La gente nelle tendopoli e sulla costa adriatica, dove l'alloggio è garantito solo fino al 15 maggio, vede il buio davanti a sé. Nessuna previsione realistica pare possibile, se non quella di tempi assai lunghi per tornare ad una qualche normalità. Per ora si può vivere solo alla giornata, in attesa di notizie rassicuranti. In attesa che alcune domande trovino risposta. Sono domande semplici, di buon senso, quelle che ricorrono tra la gente colpita, ma considerate faziose dal presidente e dai suoi amici ripresi a turno tra le macerie con l'elmetto di ferro in testa, considerate inopportune in momenti tragici come questo, da rimandare a momenti più sereni. Tra la maggioranza degli sfollati sembra prevalere il bisogno di credere che le promesse iniziali si realizzeranno, di prendere alla lettera ogni singola parola pronunciata dal presidente inginocchiato ai funerali di Stato, di pensare che l'Abruzzo sarà come l'Umbria per cui lo Stato ricostruì gli edifici al 100%. In realtà, purtroppo, manca qualsiasi assunzione di responsabilità per quanto è accaduto, che forse poteva essere arginato nei suoi effetti devastanti. Si parla infatti di responsabilità generiche, si continua a ripetere a tambur battente che nessuno è in grado di prevedere un terremoto, come se il terremoto non fosse già presente da mesi. Come se tantissime persone senza aspettarsi nulla dalle istituzioni, cosa che accade sempre più nel nostro Paese, non avessero già provveduto arrangiandosi come potevano, decidendo di dormire in macchina da tempo, chiedendo ospitalità altrove, non mandando i bambini a scuola, lasciando la città, lasciando l'Università (come è stato nel caso di alcune studentesse alloggiate presso la casa dello studente, poi andata in frantumi, che avevano denunciato crepe apparse sui muri delle proprie stanze senza essere minimamente prese in considerazione). E dopo le promesse (e le lacrime) da Caimano e una volta spenti i riflettori sull'Abruzzo, quando la durezza della vita quotidiana per decine di migliaia di persone assumerà proporzioni gigantesche, starà all'opposizione e ai comitati dei terremotati che si stanno formando fare il possibile affinché le indagini in corso non vengano insabbiate, la ricostruzione non diventi coltura di speculazioni, lo Stato investa quanto serve in modo che tanti territori non vengano spopolati. Per far in modo che l'Aquila, città di cultura universitaria, dai mille monumenti medioevali e rinascimentali, in pochi anni possa tornare a vivere tra le sue montagne.

giovedì 23 aprile 2009

l'ennesima messa in scena


Altro che illusionista. Qui siamo di fronte al principe dei piazzisti (come lo ribattezzò mirabilmente il mai troppo compianto Indro Montanelli), al re degli improvvisatori, al capo indiscusso dei fregnacciari. Naturalmente avrete capito di chi sto parlando. Tanto per cambiare. La notizia odierna è proprio da prima pagina, ma di quella da usare al chiuso di una toilette. Gli amministratori abruzzesi sono contenti, e li capisco. Quelli sardi lo sono molto meno, e il PD locale può vendicarsi sulla prevista inutilità di avere uno come Cappellacci presidente. Il PD nazionale che deve fare? Fa quello che fa da venti giorni: buon viso a cattivo gioco. Contempla l’ultimo coniglio tirato fuori dal cilindro del Pifferaio, avanza qualche dubbio di fattibilità, chiede di occuparsi un po’ di più del reperimento dei fondi per la ricostruzione e del loro utilizzo. Io, più liberamente e schiettamente, dico ad alta voce che è vergognosa la trovata berlusconiana di spostare dalla Maddalena a Pettino, frazione dell’Aquila, le oltre ventimila persone che tra delegazioni, stampa e sicurezza si muoveranno per il vertice del G8. In occasione del G20 di Londra è stato detto e ridetto che momenti più ristretti (ma non abbastanza) come il G8 sono ormai obsoleti. E sono soprattutto inutili passerelle. Quella di luglio sarà una passerella macabra, organizzata sul piazzale che nemmeno due settimane fa vedeva allineate 205 bare di vittime, molte delle quali sarebbero ancora vive se la sesta o settima potenza mondiale avesse fatto il proprio dovere per proteggerle. Ho sopportato a malincuore il Pifferaio presente e operante dei primi giorni. Ho sopportato per amor di patria il Pifferaio già opportunista da Pasqua in avanti. Oggi mi indigna il Pifferaio che teatralizza terremoto e ricostruzione per elevare un monumento a se stesso. Per anticipare ogni critica, il governo sostiene che lo spostamento ha innanzi tutto l’obiettivo di risparmiare. A parte che i soldi pubblici sono stati già spesi, e che altri i privati ne avevano impegnati alla Maddalena. La verità è un’altra: nei prossimi tre mesi la Protezione civile e il suo capo Bertolaso non avrebbero potuto lavorare sui due fronti del terremoto e del G8, che pure a loro è affidato. Stando così le cose, molto più onesto e sensato sarebbe stato annunciare che il summit internazionale veniva cancellato. Tutti nel mondo avrebbero capito, non se ne sarebbe dispiaciuto nessuno. Anzi, non se ne sarebbe accorto nessuno: ci sono ben altre sedi nelle quali si dispiega il tentativo di rimettere in piedi l’economia globale. Il G8 italiano era stato fissato in un’era preistorica rispetto alla crisi, la sua agenda abbondantemente superata da incontri come quello londinese (che ha avuto la presenza degli autentici protagonisti della globalizzazione, a cominciare dalla Cina). E infatti un altro G20 è già previsto entro il 2009. Ecco dunque che cosa rimane del coniglio del Pifferaio di Arcore: il lustro della propria immagine, che a livello internazionale è quella che è (praticamente zero). Da attore di farsa si fa attore di tragedia, ma sempre di messa in scena si parla. Anche se da oggi (mi ci gioco lo stipendio di maggio) i giornali traboccheranno stupore per l’abilità manovriera del premier. L’Abruzzo è altro. Ciò che andava bene nell’emergenza, a cominciare dalle strutture sanitarie, è già ora inadeguato. Gli artifici contabili tremontiani hanno ieri fatto piazza pulita di tutte le poche risorse che erano rimaste per difendersi dalla crisi al Sud, ma come saranno spesi questi soldi, ancora non è chiaro. Gli abruzzesi sono (siamo) gente troppo seria: saranno onorati di ricevere Obama, ma non cloroformizzati né distratti da questo evento, come invece Berlusconi vorrebbe. I miei conterranei chiedono case e normalità: questo gli va dato. Non mondanità sismica.

martedì 21 aprile 2009

l'occasione mancata (per il PD)


Sembra incredibile a dirsi, ma ogni qualvolta il destino riserva un momento diverso, apprezzabilmente diverso per il Partito Democratico e per le scelte della sua classe dirigente, puntualmente viene disattesa la naturale speranza del popolo della sinistra. Basta guardare alla questione dell'election day. Non è ancora finita la telenovela della data del referendum. Il tempo stringe, questa è l’ultima settimana utile, eppure nonostante i pranzi, i vertici, gli accordi siglati tra il presidente del Consiglio e la Lega, i prezzi già pagati (come ad esempio quello dello spreco di denaro che si poteva destinare alle vittime del terremoto) e i momenti di frizione politica ed ideologica con il presidente della Camera dei Deputati, il governo non è ancora in condizione di pronunciare le parole chiare e univoche che il PD ha chiesto di dire. Il motivo è che alla Lega non basta vincere, la Lega vuole stravincere. Il ministro Roberto Maroni non si accontenterà né dell’accorpamento con la data dei ballottaggi (che comunque un risparmio di denaro pubblico, anche se minore, lo consentirebbe), né del rinvio di un anno (che senza il consenso dei referendari sarebbe comunque un precedente grave, altro che l’incostituzionalità presunta dell’abbinamento con le elezioni europee). No, Maroni vuole che si voti il 14 giugno, perché vuole avere la certezza assoluta che il referendum non raggiunga il quorum. Il Partito Democratico, d'altra parte, punta a sventare questo gioco, o almeno a smascherarlo. Per questo, per non lasciare alibi al governo, dalla segreteria è partita una nota che anziché collocare il PD sull’Aventino (come pure sarebbe stato giustificato fare dopo il no alla richiesta di election day), offre la massima disponibilità a collaborare «a un percorso legislativo che nel rispetto delle regole consenta di votare il 21 giugno, data nella quale si può ottenere un risparmio minore ma significativo». La verità, a mio modesto avviso, è che il percorso verso il voto nello stesso giorno dei ballottaggi risulta essere particolarmente difficile. La legge prevede che si voti per i referendum in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno, e quindi il governo in pratica è obbligato a fissare in settimana la data del 14. A quel punto potrà intervenire, in tempi strettissimi, con un successivo intervento legislativo che modifichi la decisione, ma il Quirinale ha già discretamente fatto sapere che non è il caso di procedere su questa materia con un decreto. Ecco perché tante carinerie verso l’opposizione: perché un’eventuale leggina per votare il 21 giugno avrebbe bisogno di una corsia preferenziale in Parlamento o rischierebbe di non passare, soprattutto se una parte della maggioranza (la Lega in primis) facesse qualche bizza durante le votazioni. Il referendum comunque, in casa PD, continua a essere considerato solo uno strumento per scardinare il Porcellum, non per riformarlo: per cui un eventuale rinvio all’anno prossimo, se condiviso dai promotori, potrebbe riaprire spazi per una riforma della legge elettorale in Parlamento. Ma allo stato non è questa l’ipotesi più probabile. E intanto per il PD, come al solito, il treno è già passato...

lunedì 20 aprile 2009

ma la ragione è dei furbi?


Questa è la semplice e banale domanda che mi sono posto in questo inizio di settimana, forse ripensando al vecchio adagio che la ragione è dei fessi e che poco mi sembrava applicabile al panorama attuale, sia politico che informativo. A sentire i discorsi, pomposamente riportati su giornali e telegiornali, del capo del governo italiano e dei suoi appecoronati ministri sembra che il capo abbia sempre ragione. Anche quando manifestatamente non ce l'ha. A leggere i titoli dei quotidiani riferibili all'area di influenza, soprattutto economica, del Pifferaio di Arcore la cosa pare ancora più rimarcata. In buona sostanza accade che tutti quelli che criticano il Caimano, a torto o a ragione, evidenzino come il premier abbia di fondo un conflitto di interessi grosso quanto un grattacielo e che ogni decisione che prende, alla fin fine, riguardi un suo interesse diretto o indiretto. Il Pifferaio, al contrario, pensa che tutto quello che è buono per Lui è buono anche per il Paese. In mezzo, ed a prescindere, si colloca tutto il popolo che pensa, indifferentemente, il male di tutto e di tutti. Anche di quelli per cui vota. La cosa sembrerebbe irragionevole, assurda, eppure si spiega se si considera che ognuno sostiene la propria ragione con ogni mezzo e, per esempio, non è che al centro o a sinistra non vi siano dirigenti che pensano male del Caimano e pensano, ovviamente, che chi non condivide la loro opinione sia quantomeno disinformato o coartato dalla tv o peggio emulo (in piccolo s’intende) del Caimano stesso e del suo lato peggiore. Ma quel che è peggio è che tanti, anche al centro ed a sinistra, fanno coincidere l’interesse della gente con il proprio personale o di partito o di coalizione che sia. In buona sostanza, l’uomo è uomo ad ogni latitudine ed ha sempre la tendenza a pretendere di avere ragione ed ha, anche, la tendenza a non riconoscere all’altro lo stesso suo diritto. L’analisi potrebbe essere ancora lunga ma la questione sta, purtroppo, in questi termini semplici e crudi e non vale nemmeno la pena dilungarsi. Un atteggiamento ragionevole sarebbe, a mio avviso, quello di persone e partiti che volendo governare insieme si pongano degli obiettivi comuni dopo aver stabilito regole di funzionamento accettabili ed accettate da tutti. Però anche qui risorge il vizio (o difetto) che ognuno ritiene di avere ragione e ritiene la ragione dell’altro certamente inferiore alla propria. Si potrebbe dire, in conclusione, chi è senza peccato scagli la prima pietra ma non servirebbe granchè ed allora mi auguro che avanzino (nel senso che siano sopravvissuti non che solo si facciano avanti) persone di normale buon senso e normale e corrente sentire poichè la politica, nel suo insieme e a ben vedere, sembra avere ben poco da offrire. Tanto per citare un altro adagio, a buon intenditor...

sabato 18 aprile 2009

se la suonano e se la cantano


Il valzer delle poltrone per i nuovi direttori di testata in RAI non deve aver portato bene a quello che il sottoscritto, qualche giorno fa, aveva indicato come il nuovo direttore del TG1, vale a dire Maurizio "Scucchia" Belpietro. Forse, ma non ne sono sicuro, il mio post dedicato alla sua ventilata nomina deve avergli portato sfiga, se è vero (com'è vero) che dovrà rinunciarvi per accomodarsi sulla non meno prestigiosa poltrona del TG5. Comunque, a parte tutto, mi sembra perlomeno fuori luogo che le nomine di un'azienda pubblica (e di servizio pubblico) debbano farsi nel salone della residenza privata romana del Pifferaio di Arcore, in quel Palazzo Grazioli storica dimora e luogo di incessante pellegrinaggio da quando il Caimano vi si è insediato. I nuovi organigrammi, stando alle ultime accreditate voci, hanno generato il seguente valzer delle poltrone. La principale notizia, finora inedita, riguarda il TG3, dove dovrebbe andare come direttore Bianca Berlinguer, mentre alla Rete Due sarebbe designato come responsabile Massimo Liofreddi. Per il TG2, invece, le preferenze del beato Silvio andrebbero a favore di Mario Orfeo, attuale direttore de Il Mattino di Napoli. Formalmente sarà il direttore generale della RAI, Mauro Masi, a scegliere da una terna di nomi che include anche Augusto Minzolini, notista politico de La Stampa di Torino, e Roberto Napoletano, direttore de Il Messaggero di Roma. Per quanto riguarda Antonio Di Bella, rimosso quasi sicuramente dalla direzione del TG3 per far posto alla figlia del defunto segretario del vecchio PCI, sarà compensato con la direzione della Rete Tre. Una delle cariche più importanti della RAI, quella di direttore di Rai Fiction (attualmente vacante dopo l’uscita del suo padre-padrone Agostino Saccà), sarà assegnata al 99% al fighetto per eccellenza Carlo Rossella, attuale presidente di Medusa film, il quale avrà come suo vice Paolo Bistolfi, confermato nella carica.
Come già anticipato da Repubblica.it, Clemente J. Mimun passerà, si dice molto controvoglia, dalla direzione del TG5 a quella del Tg1. Mauro Mazza, a sua volta, passerà dal TG2 a RaiUno. «Su questi nomi non ci piove», racconta uno dei partecipanti alla riunione di Palazzo Grazioli, secondo il resoconto di Repubblica.it, aggiungendo che la nuova RAI, targata Caimano, dovrebbe decollare già mercoledì 22 aprile, giorno della prossima riunione del CdA.
C’erano veramente tutti, gli attori della partita RAI a Palazzo Grazioli, alla corte del puparo. I leghisti Maroni e Calderoli, i capigruppo e i vice di Camera e Senato Cicchitto, Bocchino, Gasparri e Quagliarello, il ministro Andrea Ronchi, il sottosegretario alle comunicazioni Paolo Romani, il mediatore del Nord Aldo Brancher. È stata esaminata una griglia completa di nomi, casella per casella, con le eventuali alternative. Mancava, nell’elenco, la Rete Tre, fortilizio residuale dell’opposizione. Ma per il resto è quasi tutto pronto. L’anomalia di una discussione sulla tv pubblica svolta nell’abitazione del premier ha scatenato le opposizioni: «E' un'indecente esibizione del conflitto di interessi», attacca Paolo Gentiloni, responsabile comunicazione del Partito Democratico. «Masi intervenga a difesa dell'autonomia», dice il consigliere Nino Rizzo Nervo, forse dimenticandosi che Masi era ed è uomo di fiducia del Caimano. In conclusione la dichiarazione di Antonio Di Pietro, leader dell'Italia dei Valori: «E' l'ennesima ferita alla democrazia. Il PD deve svegliarsi». Secondo me devono svegliarsi anche gli italiani...

letterina per il premier


Egregio signor Presidente del Consiglio, chi Le scrive questa lettera non è mai stato fondamentalmente per la linea che Lei debba esser preso molto sul serio. Soprattutto sul terremoto, che è la cosa più seria di tutte. C’è chi ha storto il naso (io per primo) per le sue passeggiate nelle tendopoli, chi per le sue battute fuori posto, chi soffre per l’efficacia comunicativa della sua presenza sul luogo del disastro. Come si è visto c’è stato perfino chi ha cercato, nella reazione della macchina dei soccorsi, argomenti di polemica politica, stavolta del tutto infondata. Io non più di tanto. Di motivi per la polemica, però, ce ne sarebbero a iosa se si guarda all’altro ieri, alla cultura del condono e della deregulation edilizia che ha contrassegnato le scelte della destra (e quindi le sue, signor Presidente del Consiglio) fino all’immediata vigilia del terremoto. Ma questo riguarda il passato, sperando che sia davvero passato. Il presente è puro lavoro d’emergenza, ed è stato svolto al meglio nelle condizioni date. L’incognita è il futuro, il futuro prossimo, sul quale Lei ha assunto impegni che vanno presi appunto molto sul serio. Lei, signor Presidente del Consiglio, ha promesso: un tetto per tutti gli sfollati prima che venga il freddo. In Abruzzo (ed io lo so bene, essendo nato in quella terra) vuole dire prima di ottobre. Se il calendario non m'inganna vuol dire che mancano poco più di cinque mesi. Non per costruire baraccopoli, come giustamente ha aggiunto Lei, ma case vere, anche se provvisorie. Signor Presidente del Consiglio, se ho ben capito Lei ha messo la sua faccia su questo impegno: se la sta giocando tutta, lo sa? Lei ha fatto una solenne promessa davanti alla bare e alle famiglie in lutto. Non è uno scherzo, una gag da summit internazionale, una battuta da smentire domani. Io credo (e spero) che tutto quanto da Lei promesso debba essere fatto, con impegno e serietà. Lo stesso impegno e serietà che mi auguro mettano anche i suoi uomini della maggioranza, tutti indistintamente (anche quelli che non hanno partecipato alla passerella di questi ultimi giorni). Pazienza se alla fine Lei cercherà di ricavarne un utile politico: l’importante è che ci provi a risultati ottenuti, non sulle chiacchiere. L’inizio non è stato certo incoraggiante: dietro alle passerelle di governo si intravede poco di sostanzioso quanto a progetti, risorse effettive, idee chiare sul che fare. Si sbanda dal Telethon pro-terremotati al 33 per cento di incentivo a chi fa da sé: ma questo sarebbe uno stato che abdica al proprio ruolo e che si affida alla buona volontà dei privati. Che è tanta. Ma non si illuda, signor Presidente del Consiglio, di potersi fare bello con la generosità degli italiani: le scelte vere deve farle Lei. E presto ne dovrà rispondere davanti a tutta l'Italia. Distintamente La saluto. Nomadus.

venerdì 17 aprile 2009

la lista dei sogni stracciata dalla Lega


Una semplice dichiarazione, fatta magari sopra pensiero e nell'enfasi di un discorso atto ad autoelogiarsi, può alla fin fine rivelare il segreto di Pulcinella: il Caimano è sotto schiaffo da Umberto Bossi e dalla Lega Nord. Praticamente è ostaggio del Carroccio. E' bastato un minimo accenno di crisi di governo da parte del Senatùr, in caso di Election day con il referendum, che subito il Pifferaio di Arcore se l'è fatta sotto. E così non ci sarà certo la famosa lista di nozze di cui parlava orgogliosamente il premier, per farsi sponsorizzare da benefattori e amici stranieri la ricostruzione delle opere d’arte. E non ci sarà nemmeno la lista dei sogni, quella che sarebbe stato possibile stilare subito, o quasi, con i 460 milioni di euro che lo Stato avrebbe potuto risparmiare con un unico election day per il voto amministrativo e quello referendario. Case, soprattutto, e poi strade, scuole, libri, giusto per fare qualche esempio. Cose concrete, vale a dire il semplice quotidiano che gli aquilani hanno perso nella notte tra il 5 e il 6 aprile. Una lista dei sogni, appunto, perché la Lega ha puntato i piedi e ha convinto il Caimano e tutto il Popolo della Libertà a dire no all’election day. Quattrocento sessanta milioni sono, tanto per cominciare, il 4 per cento di una ricostruzione che è stata stimata dal ministro dell’Interno tra i 10-12 miliardi. Un buon modo per cominciare ad orientarsi in una terra che ancora trema duecento volte al giorno. Quattrocentosessanta milioni potrebbero essere la risposta abitativa per almeno i due terzi di quei 20 mila aquilani rimasti senza casa perché inagibile, distrutta o crollata. La Provincia ieri mattina si è riunita per un consiglio straordinario. Il presidente Stefania Pezzopane (PD) ha tentato con tecnici e assessori una prima stima dei danni e ha concluso la riunione con la seguente certezza: «Con 460 milioni di euro risolvo tutti i problemi della Provincia, dalle strade alle scuole». Nel dettaglio la lista dei sogni della Provincia prevede: 25 milioni per rimettere a posto le strade; 60 milioni per le scuole superiori e professionali (quelle di competenza della Provincia) di cui 5 solo per il Conservatorio, dove insegnano docenti che arrivano da tutta Italia; cento milioni per gli edifici di proprietà e le sedi storiche della Provincia; 15 milioni per recuperare il fondo librario andato perduto e restaurare la collezione di quadri di Teofilo Patini, quotatissimo pittore abruzzese. Ma sono le case il vero nodo della ricostruzione e l’emergenza per questa gente. L’ultima stima del sottosegretario alla Protezione civile, Guido Bertolaso, parla di 20 mila persone senza casa, abitazioni distrutte, da ricostruire. È un terzo della popolazione della città di L’Aquila che conta 60 mila abitanti. Tabelle alla mano, di ingegneri e architetti, è possibile fare una botta di conti al metro quadrato. Speculazioni e bolle edilizie a parte, oggi una casa costa mille euro al metro quadro e può costarne anche 800 se si tratta di edilizia popolare. Con queste premesse si arriva a stimare che una casa di cento metri quadrati, ampiezza media per una famiglia di tre persone, può costare dagli 80 ai 100 mila euro. Significa che con i famosi 460 milioni che lo Stato "sta per buttare giù dalla finestra dandola vinta alla Lega questa volta sì ladrona" come dice la Pezzopane, potevano essere costruite 4.600 abitazioni da centomila euro o 5. 800 da ottantamila euro. Contando che in ognuna di queste case possono abitare fino a tre persone, all’incirca quindicimila aquilani avrebbero potuto risolvere il problema abitativo. Il più urgente. Ma è un libro dei sogni, appunto. Perché quei soldi saranno invece spesi per allestire i seggi del referendum. Grazie a Bossi e al Pifferaio.

molto meglio Vauro del Caimano


Non credo che i lettori di questo blog siano rimasti sorpresi dal titolo che ho deciso di dare a questo mio odierno post. E non credo nemmeno ci siano i presupposti per spiegarne il perchè. Chi mi legge da lungo tempo sa che non ho in eccessiva simpatia il Pifferaio di Arcore, ma in questo caso, messo di fronte ad una inevitabile scelta tra due operatori della risata (Vauro e il Caimano) non posso che scegliere il 55enne pistoiese (seppur Senesi di cognome). Tutto ha inizio da una vignetta (che forse avrebbe voluto disegnare proprio il Caimano...): l'omino ha una vanga in mano, le braccia molli tese a terra. Sul suo viso si legge tutta la tristezza per quello che lo circonda e soprattutto per quello che ha innanzi: è una fila di bare lunghissima, quella delle vittime del terremoto abruzzese. La battuta della vignetta di Vauro, a mio avviso, è tutt'altro che in spregio o dileggio verso i morti, verso chi è rimasto a piangerli o verso chi lavora a scavare e a ricostruire. La battuta, anche uno sciocco lo capirebbe, è scritta contro ogni speculazione edilizia, contro ogni speculazione sulla tragedia, sull'ecatombe che ha colpito la regione fino a poco tempo fa gestita da un malsano centro(sinistra) guidato da Ottaviano Del Turco. Eppure il fumetto suscita la massima indignazione nella destra, divide il Partito Democratico e provoca la reazione censorea di Viale Mazzini che interdisce Vauro da Annozero e spinge Michele Santoro a dare vita ad una puntata riequilibrativa, quasi un indenizzo alla moralità violata delle vittime e della popolazione abruzzese in generale. Ma nessuna lamentela dall'Abruzzo è arrivata alla RAI, né tantomeno alla redazione della trasmissione del giovedì sera di Rai Due. A sottolineare questo aspetto ci si sente rispondere che il fatto resta grave e che, pertanto, va sanzionato. Ed ecco quindi che la matita di Vauro viene spezzata per una puntata (anche se ieri sera Santoro l'ha furbescamente riappuntita...), viene messa al bando e spuntata per rendere evidente che questo governo rispetta la pluralità di posizioni, ma che è pronto ad intervenire quando si supera la soglia (prestabilita ad insindacabile giudizio dall'esecutivo medesimo) di tolleranza del dissenso, di quelle voci che fuoriescono dai cori innengianti all'indaffaratissimo Pifferaio di Arcore onnipresente su ogni tv e su ogni sito Internet ad ottemperare gli obblighi di Stato prima e le faccende burocratiche poi. Nei giorni del terremoto, anzi, la sera stessa dopo la scossa fatale, Rai Uno, Canale 5 e anche altre reti hanno fatto a gara per aggiudicarsi ciascuna un numero di ministri adeguato a mostrare e dimostare che Palazzo Chigi non dormiva e che già progettava la new town, la nuova città accanto al capoluogo distrutto, alle macerie ancora fumanti dai crolli impietosi e con sotto ancora tutta quella gente che doveva essere estratta dal lavoro spesso a mani nude della generosa prontezza dei Vigili del fuoco e della Protezione civile. Cos'è più indecente? La vignetta di Vauro che fa una genuina ironia sul solito carosello speculativo che si abbatte subito dopo ogni disgrazia o invece le passerelle dei ministri in tv? Sembra purtroppo che in Italia non esista più altra autorità superiore al presidente del Consiglio e, per questo, nessuno può sanzionarlo quando afferma che la vita degli sfollati nelle tendopoli va presa come una gita, come un allegro campeggio. Per questi (e per tanti altri) motivi io sto tutta la vita dalla parte di Vauro Senesi (http://it.wikipedia.org/wiki/Vauro) e dalla parte della libertà di satira e di informazione.

mercoledì 15 aprile 2009

la nuova strategia dell'emergenza


Certo, qualcuno mi dirà (o forse mi scriverà) che sono fissato, che ogni qualvolta prendo in esame un accadimento, un fatto, una situazione accaduta nel nostro Paese inevitabilmente metto in mezzo il Caimano. Che ci posso fare, mi viene quasi spontaneo e naturale. E più rifletto sulle conseguenze del dopo-terremoto, più mi convinco che come diceva il buon Divo Giulio a pensar male si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca. Prendiamo ad esempio un evento eclatante avvenuto nel mondo e che vide protagonista un vecchio amico del Pifferaio di Arcore. Vi ricordate di George W. Bush che aveva cavalcato l'emergenza terrorismo dopo l'11 settembre? Bene, l'ex presidente degli Stati Uniti portò l'opinione pubblica americana a seguirlo nelle sue avventure belliche prive di ogni giustificazione in tempi normali. Ma la fortuna di Bush cominciò a declinare proprio di fronte ad un evento traumatico di altra natura: l'alluvione di New Orleans. L'arrivo dell'uragano Katrina, nell'agosto del 2005, che devastò tutto il Sud-est degli States, mostrò al telespettatore globale il disastro organizzativo e la rabbia sociale che covava nel Paese più potente del mondo. Invece di trasformare l'evento nefasto in emergenza e mobilitazione nazionale, Bush sottovalutò la realtà, cercò di minimizzarla e finì per rimanere schiacciato dalla reazione dei mass media. Tutto il contrario del suo caro amico Silvio. Lui sì che ha capito come si gestisce un evento catastrofico, trasformandolo in emergenza politica. Dal giorno del sisma il Pifferaio di Arcore ha puntato tutte le sue energie su questa emergenza, riuscendo ad oscurare ogni altra questione vitale di questo Paese. Chi parla più della crisi economica, dei milioni di disoccupati, dello scandalo del capitalismo finanziario che si mangia la ricchezza prodotta dal lavoro? Dove sono finiti i milioni di precari impiegati nella Pubblica amministrazione a cui scadono i contratti in questi mesi? E dove è finita la Lega nord, il più temibile rivale del Caimano, che aveva alzato la voce rispetto alla bocciatura delle sue proposte di legge anti-immigrati, demenziali e criminali ? Dove è finita l'emergenza clandestini su cui puntavano Bossi, Maroni e compari per vincere al Nord le elezioni europee? Scomparsa la crisi, scomparsi i clandestini, tutto il Paese a seguire il Grande Capo che non molla la preda. Una gestione perfetta dell'emergenza che rilancia sullo schermo mondiale un'immagine inedita di un'Italia efficiente e coesa, unita intorno al Capo Supremo che incarna lo spirito italico, fatto di compassione e di altruismo. Naturalmente chi dubita della tempestività degli aiuti, chi mette in discussione il modo con cui sono stati costruiti i palazzi moderni crollati d'un botto, diventa immediatamente un traditore della Patria. Siamo in guerra e non ce n'eravamo accorti. Non sono certo un cinico nello scrivere queste cose. Anzi. Non dimentico certamente il dolore di questa tragedia che ha gravemente colpito le genti d'Abruzzo, la mia terra. Ma non voglio certo passare per ingenuo e stupido: l'uso politico di questo sisma, il modello di gestione dell'immagine, passerà alla storia come il famoso manuale di Carl Clausewitz (http://it.wikipedia.org/wiki/Carl_von_Clausewitz) sulla guerra. Quando le migliaia di morti sul lavoro, le decine di migliaia di morti da inquinamento (dall'amianto ai rifiuti tossici), le centinaia di migliaia morti per fame a causa di questo sistema di produzione, diventeranno una vera emergenza verso la quale concentrare tutte le nostre energie per modificare le condizioni che la producono, allora avremo davvero voltato pagina nella storia contemporanea. O forse avremo solo cambiato il Paese in cui vivere.

martedì 14 aprile 2009

adesso viene il bello...


Non vorrei sempre ripetermi, ma passata la sbornia mediatica e apostolica del Pifferaio di Arcore in visita ai suoi discepoli, seppur terremotati, adesso mi viene da pensare (e da scrivere) su che cosa farà il nostro beato Silvio. Quali miracoli starà predisponendo per mantenere fede (e speranza) ai suoi soliti proclami? Debbo confessare, ad onor del vero, che anche il più antiberlusconiano d’Italia dovrà ammettere che l'operazione Abruzzo del premier fino ad oggi è riuscita (o quasi). Ma anche il più berlusconiano d'Italia dovrà riconoscere che il difficile viene adesso. La presenza del capo del governo nei luoghi colpiti dal sisma sembra abbia convinto gli italiani della sua sincera commozione, della sua capacità di leadership di fronte all’emergenza, della vicinanza concreta delle istituzioni al dramma degli sfollati. Ma fino ad oggi il governo si è limitato a sfilare nei luoghi del disastro, a stringere mani, a promettere aiuto. Ha dovuto decidere poco o nulla e, credo, non basterà l’eventuale presenza quasi quotidiana del presidente del consiglio in loco per risolvere una montagna di problemi, infinitamente più alta di quella di Napoli. La prima uscita del governo sul 5 per mille già dimostra la difficoltà di passare dalle intenzioni ai fatti. La possibilità di inserire una voce dedicata specificatamente al terremoto (nella dichiarazione dei redditi), non solo non garantisce entrate sicure (e comunque insufficienti) ma finirebbe per danneggiare quel settore che invece andrebbe coinvolto in prima linea nella ricostruzione dell’Abruzzo. Dubito che anche una lotteria ad hoc o un aumento delle tasse sul Gratta e vinci possano essere risolutive. Di soldi in cassa ce ne sono pochi e l’esame di leadership del Pifferaio di Arcore non è ancora arrivato. Arriverà quando il premier smetterà di accontentare tutti; quando deciderà, quando sceglierà, quando dividerà gli italiani. Cioè, per esempio, quando deciderà se privilegiare il Ponte sullo stretto o l'Expo 2015 a Milano, se strizzare l'occhio agli elettori del Sud o quelli della Lombardia, se alzare le tasse ai redditi più alti o tagliare scuola e sanità, se inserire gli aiuti all’Aquila tra le voci del 5 per mille o dell’8 per mille. Se già dal prossimo Consiglio dei ministri (già rinviato al 24 aprile) il Caimano metterà mano al piano casa, approvando le misure antisismiche a lungo annunciate ma mai approvate, credo che dovrà anche inevitabilmente mettere mano al portafoglio per adeguare alle regole una parte degli edifici pubblici italiani. L’uomo del fare in Abruzzo ha parlato molto. In nome dell’unità nazionale una parte degli italiani gli ha scontato qualche gaffe sui terremotati e ha chiuso un occhio di fronte all’inutile passerella dei ministri nei luoghi del disastro. Ma già dal prossimo vertice di palazzo Chigi si capirà se il governo fa sul serio, se è capace di decidere e che cosa. Personalmente mi auguro che la stampa lo aspetti al varco e ne verifichi il passaggio dalle promesse alla realtà, anche rischiando di turbare il clima di solidarietà collettivo che nessuno oggi osa mettere in discussione. Quando le luci delle telecamere si spegneranno, per gli abruzzesi sarà ancora notte fonda. E per il Pifferaio verrà il bello. O il brutto. Staremo a vedere...

domenica 12 aprile 2009

una voce fuori dal coro (dell'ipocrisia)


Navigando in rete, in questa giornata festiva, ho scovato un blog (e un post in particolare) che mi ha fatto riflettere su questo momento di corsa alla solidarietà. il blog è http://giadg33.wordpress.com/, il post si intitola Ma io l'euro non lo do...E' vero, il dramma del popolo abruzzese è immane, senza fine e senza possibilità di mmediata soluzione. Gli aiuti umanitari debbono necessariamente arrivare tramite i canali istituzionali ed ufficiali (Croce Rossa Internazionale e Protezione Civile); gli aiuti economici tramite i famigerati sms al numero unico 48580 vanno dati, ma quello che scrive questo blogger mi trova alquanto d'accordo: perlomeno sull'accusa nei confronti del governo e della politica che, invece di attingere dai soldi degli evasori e di chi in genere si astiene dal compiere atti di generosità, si affida con lassismo e reiteratezza al solito buon cuore degli italiani, sempre pronti a metter mano al portafogli e donare qualche euro. Leggetevi comunque questo controcorrente j'accuse e ditemi se qualcuno di voi non ci si riconosce...
Scusate, ma io non darò neanche un centesimo di euro a favore di chi raccoglie fondi per le popolazioni terremotate in Abruzzo. So che la mia suona come una bestemmia. E che di solito si sbandiera il contrario, senza il pudore che la carità richiede. Ma io ho deciso. Non telefonerò a nessun numero che mi sottrarrà due euro dal mio conto telefonico, non manderò nessun sms al costo di un euro. Non partiranno bonifici, né versamenti alle Poste. Non ho posti letto da offrire, case al mare da destinare a famigliole bisognose, né vecchi vestiti, peraltro ormai passati di moda. Ho resistito agli appelli dei vip, ai minuti di silenzio dei calciatori, alle testimonianze dei politici, al pianto in diretta del premier. Non mi hanno impressionato i palinsesti travolti, le dirette no stop, le scritte in sovrimpressione durante gli show della sera. Non do un euro. E credo che questo sia il più grande gesto di civiltà, che in questo momento, da italiano, io possa fare. Non do un euro perché è la beneficienza che rovina questo Paese, lo stereotipo dell’italiano generoso, del popolo pasticcione che ne combina di cotte e di crude, e poi però sa farsi perdonare tutto con questi slanci nei momenti delle tragedie. Ecco, io sono stanco di questa Italia. Non voglio che si perdoni più nulla. La generosità, la beneficienza, fa da pretesto. Siamo ancora lì, fermi sull’orlo del pozzo di Alfredino, a vedere come va a finire, stringendoci l’uno con l’altro. Soffriamo (e offriamo) una compassione autentica. Ma non ci siamo mossi di un centimetro. Eppure penso che le tragedie, tutte, possono essere prevenute. I pozzi coperti. Le responsabilità accertate. I danni riparati in poco tempo. Non do un euro, perché pago già le tasse. E sono tante. E in queste tasse ci sono già dentro i soldi per la ricostruzione, per gli aiuti, per la Protezione civile. Che vengono sempre spesi per fare altro. E quindi ogni volta la Protezione Civile chiede soldi agli italiani. E io dico no. Si rivolgano invece ai tanti eccellenti evasori che attraversano l’economia del nostro Paese. E nelle mie tasse c’è previsto anche il pagamento di tribunali che dovrebbero accertare chi specula sulla sicurezza degli edifici, e dovrebbero farlo prima che succedano le catastrofi. Con le mie tasse pago anche una classe politica, tutta, ad ogni livello, che non riesce a fare nulla, ma proprio nulla, che non sia passerella. C’è andato pure il presidente della Regione Siciliana, Lombardo, a visitare i posti terremotati. In un viaggio pagato (come tutti gli altri) da noi contribuenti. Ma a fare cosa? Ce n’era proprio bisogno? Avrei potuto anche donarlo, un euro, forse due. Poi Berlusconi ha parlato di "new town" e io ho pensato a Milano 2, al lago dei cigni, e al neologismo "new town". Dove l’ha preso? Dove l’ha letto? Da quanto tempo l’aveva in mente? Il tempo del dolore non può essere scandito dal silenzio, ma tutto deve essere masticato, riprodotto ad uso e consumo degli spettatori. Ecco come nasce "new town". E’ un brand. Come la gomma del ponte.
Avrei potuto donarlo un euro. Poi ho visto addirittura Schifani, nei posti del terremoto. Il Presidente del Senato dice che "in questo momento serve l’unità di tutta la politica". Evviva. Ma io non sto con voi, perché io non sono come voi: io lavoro, non campo di politica alle spalle della comunità. E poi mentre voi, voi tutti, avete responsabilità su quello che è successo, perché governate con diverse forme gli italiani e il suolo che calpestano, io non ho colpa di nulla. Anzi, io sono per la giustizia. Voi siete per una solidarietà che copre le amnesie di una giustizia che non c’è. Io non lo do l’euro. Perché mi sono ricordato che mia madre, che ha servito lo Stato per 40 anni, prende di pensione in un anno quanto Schifani guadagna in due settimane. E allora perché io devo dare questo euro? Per compensare cosa? Quando ci fu il Belice i miei lo sentirono, eccome, quel terremoto. E diedero un po’ dei loro risparmi alle popolazioni terremotate.
Poi ci fu l’Irpinia. E anche lì i miei fecero il bravo e simbolico versamento sul conto corrente postale. Per la ricostruzione. E sappiamo tutti come è andata.
Dopo l’Irpinia ci fu l’Umbria, e poi la scuola di San Giuliano. E di fronte allo strazio della scuola caduta sui bambini non puoi restare indifferente. Ma ora basta. A che servono gli aiuti se poi si continua a fare sempre come prima? Hanno scoperto, dei bravi giornalisti (ecco come spendere bene un euro: comprando un giornale scritto da bravi giornalisti) che una delle scuole crollate a L’Aquila in realtà era un albergo, che un tratto di penna di un funzionario compiacente aveva trasformato in edificio scolastico, nonostante non ci fossero assolutamente i minimi requisiti di sicurezza per farlo. Ecco, nella mia città, Marsala, c’è una scuola, la più popolosa, l’Istituto Tecnico Commerciale, che da 30 anni sta in un edificio che è un albergo trasformato in scuola. Nessun criterio di sicurezza rispettato, un edificio di cartapesta, 600 alunni. La Provincia ha speso quasi 7 milioni di euro d’affitto fino ad ora, per quella scuola dove, nella palestra, lo scorso mese di ottobre è caduto con lo scirocco (lo scirocco, non il terremoto!) il controsoffitto in amianto. Ecco, in quei 7 milioni di euro c’è, annegato con gli altri, anche l’euro della mia vergogna per una classe politica che non sa decidere nulla, se non come arricchirsi senza ritegno e fare arricchire per tornaconto. Stavo per farlo, l’sms della coscienza a posto: poi al Tg1 hanno sottolineato gli eccezionali ascolti del giorno prima durante la diretta sul terremoto. E siccome quel servizio pubblico lo pago io, con il canone, ho capito che già era qualcosa se non chiedevo il rimborso del canone per quella bestialità che avevano detto. Io non do un euro per i paesi terremotati. E non ne voglio se qualcosa succede a me. Voglio solo uno Stato efficiente, dove non comandino i furbi. E siccome so già che così non sarà, penso anche che il terremoto è il gratta e vinci di chi fa la politica. Ora tutti hanno l’alibi per non parlare d’altro. Ora nessuno potrà criticare il governo o la maggioranza o chi sta all'opposizione perché c’è il terremoto. Come l’11 settembre, il terremoto e l’Abruzzo saranno il paravento per giustificare tutto. Ci sono migliaia di sprechi di risorse in questo Paese, ogni giorno. Se solo volesse davvero, lo Stato saprebbe come risparmiare per aiutare gli sfollati: congelando gli stipendi dei politici per un anno o quelli dei super manager o accorpando le prossime elezioni europee al referendum. Sono le prime cose che mi vengono in mente. E ogni nuova cosa che penso mi fa aumentare sempre di più la rabbia. Io non do un euro. Ma do il più grande aiuto possibile. La mia rabbia, il mio sdegno. Perché rivendico in questi giorni difficili il mio diritto di italiano di avere una casa sicura. E mi nasce un rabbia dentro che diventa pianto, quando sento dire "in Giappone non sarebbe successo", come se i giapponesi avessero scoperto una cosa nuova, come se il know how del Sol Levante fosse solo un’esclusiva loro. Ogni studente di ingegneria fresco di laurea sa come si fanno le costruzioni. Glielo fanno dimenticare all’atto pratico.
E io piango di rabbia perché a morire sono sempre i poveracci, e nel frastuono della televisione non c’è neanche un poeta grande come Pasolini a dirci come stanno le cose, a raccogliere il dolore degli ultimi. Li hanno uccisi tutti, i poeti, in questo Paese. O li hanno fatti morire di noia. Ma io qui, oggi, mi sento italiano. Povero tra i poveri, e rivendico il diritto di dire quello che penso.
Come la natura quando muove la terra, d’altronde.

il Caimano a reti unificate


Non ci si può certo sorprendere se uno che possiede la maggioranza delle reti televisive italiane poi si lascia andare a una sequela quasi ininterrotta di apparizioni televisive o di interventi al telefono durante i programmi della sera. Naturalmente sapete di chi sto parlando. Bisogna peò ammetterlo: è stato tempestivo e determinato nell'intraprendere in Abruzzo il «metodo Napoli», gestire cioè in prima persona l’emergenza terremoto passo dopo passo. Vestire i panni del tecnico. Il beato Silvio, nella settimana della tragedia abruzzese, si è rivolto alla gente attraverso la moltiplicazione mediatica. Dagli sfollati sopravvissuti ai telespettatori, arrivando così agli elettori. Per stracciare ogni filtro ha comunicato solo in tv, onnipresente e dilagante in ogni tg RAI e sulle sue reti Mediaset, fino alla celebrazione stucchevole che ne ha fatto Matrix (http://www.video.mediaset.it/mplayer.html?sito=matrix&data=2009/04/10&id=4036&from=matrix), su Canale5, nel venerdì Santo del funerale. Un’intervista telefonica del conduttore Alessio Vinci (che ha sostituito Enrico Mentana) al Pifferaio di Arcore da far venir voglia di guardare una replica dei Puffi di qualche decennio fa. Parole e racconti esaltati dalle immagini ripetute a loop, a rullo continuo: Silvio che prega, che abbraccia una signora che ha perso i suoi cari, che accarezza un ragazzo, che si mischia con i volontari della Protezione civile e che si tira fuori dalla fotografia immobile e granitica delle figure di Stato. Dalla (sua) tv ripete che offre tre delle sue case agli sfollati, per mettersi alla pari con gli italiani a cui ha chiesto un atto di generosità, nascondendo il metro di paragone fra appartamentini sulla costa e le sue ville accomodate in luoghi ameni. È l’esaltazione di un culto della personalità messa in atto sulle televisioni di sua proprietà. Qualcosa che, forse, tracima in modo sgradevole da quella che, tutto sommato, è apparsa una reale commozione del premier e una immedesimazione nel dolore collettivo. Ma è stato proprio il Caimano, a sorpresa, ad avere cancellato le mediazioni fin dalla prima sera. Quando, dopo il primo consiglio dei ministri lunedì 6, mentre i cronisti aspettavano a Palazzo Chigi l’annunciata conferenza stampa, ha scelto inopinatamente il messaggio a reti unificate, di fatto, nella ormai sempre più consolidata Raiset, dove i confini proprietari fra tv pubblica e privata sono alquanto slabbrati. Le doppie telefonate, a Matrix e a Porta a Porta, per comunicare agli italiani che Lui era sul campo, aveva rinunciato ad andare a Mosca per volare a L’Aquila. Una costante, dal giorno dopo. Sottolineata dalle conferenze stampa quotidiane, oculatamente previste in orario per il Tg1 e gli altri, mostrandosi come l'uomo del fare in maglioncino, con mappe e carte e casco accanto al nuovo angelo custode Guido Bertolaso; annunci e correzioni sulle New Town, spot utili a far pre-digerire il famoso piano casa. Di mattina parla ancora a Canale5 con Belpietro (prossimo direttore del TG1) e, da Roma, si esalta sul (suo) sondaggio che vedrebbe schizzare la sua popolarità oltre il 70 per cento, nonostante le gaffes delle tendopoli, notate ormai solo dai giornali stranieri. La prostrazione mediatica si ripete anche su RAI1: La Vita in Diretta, venerdì, dispensa una lunga intervista con tono enfatico e compreso. E ancora ieri (in tutti i tg) l’immagine fissa di Silvio che lancia messaggi, nonostante sia entrata in vigore la par condicio. Ma l’uomo del «ghe pensi mi» è sfuggente quando deve associarsi a una denuncia del Capo dello Stato sulla responsabilità dei costruttori delle case con la sabbia del mare. E oggi, giorno di festa, sarà di nuovo lì: dalle tendopoli alle tavole del pranzo di Pasqua degli italiani, con un unico imperdonabile (a suo modo di vedere) cruccio. Non aver potuto dare la benedizione Urbi et Orbi. Perchè c'era già qualcuno che l'aveva fatto...

Pasqua: la vittoria della vita sulla morte


Questa domenica di Pasqua mi trova con il cuore spezzato (per la tragedia in terra d'Abuzzo, essendo io nato in quella terra) ma con l'animo speranzoso e gioioso, adducendo a questa festa di Resurrezione il simbolo stesso della vita che prevale sulla morte. Da duemila e più anni a oggi. Il dramma del terremoto di domenica scorsa mi porta a fare sempre più delle riflessioni che si intersecano con quelle tipiche della settimana Santa appena trascorsa, che si conclude in questa giornata di festa. Il dramma del nostro Abruzzo rende particolarmente pregnante, bene o male, la simbologia della festa pasquale imperniata sulla rinascita. Quale festa sarà mai questa Pasqua 2009 per le donne, gli uomini, i bambini, i vecchi, che la madre terra ha stritolato con un abbraccio mortifero inaudito distruggendo i loro corpi e le loro anime? Quale festa per tutti noi svuotati dal senso dell'esistere, devastati nelle nostre più profonde certezze, sommersi nell'intimo da quelle immani rovine che richiamano nella veglia e nel sonno tutte le macerie che sovrastano le nostre vite? Eppure la simbologia festiva è stata creata fin dai tempi più remoti, prima che le religioni istituite ne rivendicassero il monopolio, proprio per dare un senso al dramma dell'esistenza, per ricondurre l'umanità all'essenza dell'essere, alla danza senza sosta del nascere e morire, al sogno del continuo rinascere del tutto, alla poesia perenne dell'esistere senz'altro scopo al di sopra e al di fuori dell'esistere in sé, uno scopo quindi capace di animare tutta l'infinita gamma dei colori dell'esistenza stessa. Cambiano i nomi delle feste, cambiano i loro simboli, i riti, i tempi. Le feste però hanno tutte uno stesso nucleo profondo: distacco dalla quotidianità dominata dalla fatica e in certo modo dall'insensatezza del vivere e immersione nella dimensione del sogno, della danza, della poesia, che consente di emergere al nostro io profondo, normalmente compresso dalla fatica del dover essere. La festa induce a svuotare un po' i nostri scrigni (per non dire i nostri sarcofagi) di verità assolute, di obiettivi irrinunciabili, di non possumus senza speranza. La festa è anche invito a fare tutti un passo indietro in modo da dare spazio all'inedito, alle cose nuove che premono per nascere. Ma è possibile che la frenesia feriale si metta un po' da parte in senso vero, reale, profondo? Oppure il dominio totalizzante e ossessivo dei fini, degli obiettivi, delle tecniche, della crescita infinita, dell'operosità insaziabile, ha ormai invaso anche la festa? Lo smarrimento del senso festivo della vita è preoccupante e devastante. Le religioni istituite hanno la loro responsabilità perché hanno piegato la festa a scopi trascendenti, che in fondo sono scopi di potere, separati dall'esistere per sé, estranei alla nuda esistenza e alla sua immanente poesia. Invece di unire il trascendente e l'immanente, li hanno separati. E così hanno consegnato l'esistenza senza difese a tutte le violenze, e la festa a tutte le strumentalizzazioni. Sarà possibile recuperare il senso profondo della festa? Analizziamo la festa odierna. Pasqua è un termine ebraico, pesah, trascritto in greco con la parola pascha che in latino s'intreccia col termine pascua il quale serve a indicare i pascoli. Significa letteralmente passaggio. La festa di Pasqua nasce come grande festa della primavera di tipo agricolo-pastorale. Acquista poi gradualmente significati religiosi, storici, politici. Al fondo però mantiene sempre questo tema del passaggio: perdere una condizione e tendere a un'altra, senza averla ancora acquisita. Come avviene per la natura a primavera. Quindi il passaggio (a livello esistenziale) ha il senso di un protendersi nel vuoto. La stessa simbologia pasquale cristiana è infatti segnata dall'assenza e al tempo stesso dall'attesa: il sepolcro vuoto e la speranza del ritorno. Questa è la Resurrezione per molti di noi, variamente credenti. E non il miracolo della rianimazione di un corpo morto, evento senza storia che si trascina da duemila anni, imbalsamato nel dogma, perduto nelle nebbie dei secoli. E' possibile ancora oggi liberare il paradigma della Resurrezione dal dominio del sacro e del miracolo e ricondurlo alla quotidianità e all'etica laica (che è poi l'etica originaria dello stesso Vangelo), mantenuta viva nella storia da un cristianesimo ribelle? Più che una possibilità è forse un impegno. Perché un'etica laica, di cui sentiamo una grande necessità, non nasce dal nulla. Ha bisogno del recupero di tutti i frammenti di creatività, di saggezza e di senso disseminati dalla fatica umana nella storia. Possiamo allora vivere la festa pasquale duemilanove valorizzando questa grande solidarietà senza frontiere né condizioni che sta risorgendo nel dramma delle popolazioni terremotate e nella loro volontà di rinascere. E inoltre accogliendo con la nostra partecipazione il risorgere dell'utopia concreta della condivisione e del rispetto della natura nei nuovi orizzonti sociali, politici e economici che si stanno aprendo a livello mondiale, sollecitati dalla crisi economica. E anche vivendo con speranza la Resurrezione di Eluana Englaro nel grande movimento per l'autodeterminazione. E anche tanto altro, che è nel cuore e nella vita di ognuno e ognuna di noi. E' un augurio (il mio, il nostro) e insieme un impegno che può dare senso a questa festa pasquale. AUGURI a tutti voi.

sabato 11 aprile 2009

quell'interminabile distesa di bare


Non ho potuto fare a meno di seguire ieri mattina, seppur in televisione, i funerali delle vittime del sisma di domenica notte. Un minuto di silenzio e di preghiera che ho dedicato, con il cuore straziato, a chi non c'era più e a tutte quelle persone che erano lì, sul piazzale della caserma della Guardia di Finanza dell'Aquila, davanti a quel tappeto interminabile di bare allineate, coperte da una moltitudine di fiori dai mille colori, piangendo i loro cari. Nel venerdì santo d’Abruzzo, la morte ha apparecchiato la sua mensa trion­fale in quel piazzale disadorno. Duecento­cinque bare, neanche tutte quelle delle vit­time, ma comunque un colpo d’occhio an­nichilente davanti alla fredda geometria di una caserma. Duecentocinque bare in fila, ma anche, qualcuna, bianca e piccola, so­pra a una bara grande. Assurdamente pic­cole le bare bianche abbracciate a quelle scure. Bambini morti avvinghiati alla ma­dre, al padre. Un momento che non dimenticherò facilmente. Quella parata alla vigilia della Pasqua, men­tre attorno, fra le macerie, fioriscono i pe­schi, pare una beffa atroce. Appena qualche giorno fa questi morti compravano colombe, e uo­va di cioccolato ai loro bambini. Dov’è ora, sembrava dire quel corteo di feretri, la vo­stra Pasqua? Dov’è la speranza di una ma­dre sopravvissuta ai suoi figli, di chi ha sca­vato cercando un fratello, di chi è vivo, ma solo? Davvero la morte ha allestito una gran­diosa prova della sua potenza, in quel piaz­zale ampio e spoglio come un altare e sullo sfondo, all’o­rizzonte, l’Appennino innevato, impassibi­le. E l’ha ben visto, il cardinale Tarcisio Bertone, quell'altare di morte. Ha ben sentito il silenzio che tutti in quella piazza sentivano. «Ci inchiniamo – ha esordito – dinanzi all'enigma indecifrabile della morte». Davanti a quelle duecentocinque bare, e a quelle piccole, bianche, la prima reazione umana è tacere, e inchi­narsi. Come di fronte a un troppo grande nemico. «Tutto in un attimo può cessare, tutto può finire», ha aggiunto Bertone. Il silenzio davanti a quelle bare (e di quella notte, dopo l’ultimo schianto di macerie) a mio modo di vedere è quasi paragonabile al silenzio del Cal­vario, dopo l’ultimo grido di Cristo. Il silen­zio dell’uomo e il silenzio di Dio in quell’o­ra sospesa sull’abisso. Straziante, vertiginoso sovrapporsi del ve­nerdì santo con questa Via crucis d’Abruz­zo; simmetria delle donne sotto la croce nel­le sacre rappresentazioni, e dell’Italia da­vanti alla tv, ieri. Come uno schiaffo pode­roso, che impone di fermarsi almeno un mo­mento. L’enigma di una morte piombata co­me uno sparviero ci interroga perentoria­mente. Davvero vince la morte, in una not­te di terremoto, come, alla fine, nelle nostre singole vite? Cos’è la Pasqua, se non la me­moria di un sepolcro vuoto, di un Dio ri­sorto dalla morte? Le facce della gente al funerale sembrava­no riflettere, con una sorta di dolore pudico, quasi austero, una specie di ritrosia nel rispondere alle parole del celebrante. Come di figli troppo feriti per poter serenamente credere in una resurrezione, che nella loro stessa carne sembra oggi così crudelmente smentita. E questo è così profondamente umano. Chis­sà, sul Calvario, le facce di chi stava a guar­dare; avevano creduto in un Re, e vedevano un povero corpo martoriato. Chissà che buio infinito, quando Maddalena stava davanti al sepolcro, perché il suo Signore era morto. Ma il sepolcro, era vuoto. Lo sbalordimen­to, la gioia inaudita di Maddalena che in­contra Cristo risorto. Niente di meno, cre­do, occorre ai padri e alle madri che han­no perso i loro figli. Questa è per molti, in Abruzzo, «l'ora della grande fede», come ha detto l’arcivescovo Giuseppe Molinari, che ha chiamato per nome alcuni dei suoi fedeli scomparsi (Fabio, Franca, Alessandra...). In un appello che ha fatto venire alla mente il buon pastore del Vangelo di Giovanni, che «chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori...e le pecore lo seguono, perchè conoscono la sua voce». In un appello ver­so un tempo in cui , ha ricordato il Papa dal­l’Apocalisse, «non ci sarà più la morte nè lutto nè lamento nè affanno, perchè le cose di prima sono passate». Quando quei figli perduti saranno per davvero riabbracciati. È la speranza cristiana: capace, nella sua cer­tezza, di sfidare il futuro. E la morte.

mercoledì 8 aprile 2009

il soffio lugubre della morte


Il soffio della morte ha spazzato in venti secondi le vite di quasi trecento persone (per ora) e ha fatto precipitare nell'incubo della paura perenne gli sfollati e i feriti in terra d'Abruzzo. A mio giudizio ci sarà molto su cui riflettere, quando lo stato di assoluta emergenza sarà superato e quando la primaria necessità di dedicare ogni sforzo al soccorso delle popolazioni aquilane permetterà un'analisi più istruita delle ragioni che hanno trasformato il terremoto d'Abruzzo nell'ennesima, per nulla inevitabile, catastrofe umanitaria. So per certo che l'impegno solidale e la generosità spontanea di tante persone, di associazioni, di corpi di volontari non mancherà. Del resto, è già visibile, ed è una risorsa di cui, per fortuna, questo Paese non è privo. E tuttavia, mentre le proporzioni del disastro crescono di ora in ora e mentre le cifre di quanti mancano all'appello lasciano intuire quanto l'elenco dei morti sia ancora provvisorio, è necessario tornare, subito, su alcune questioni di fondo. Perché l'invito a non fare chiacchiere nell'ora del bisogno nasconde il cinismo di quanti vorrebbero sbarazzarsi di evidenti e reiterate inefficienze, di ritardi e di colpevole sufficienza, occultandoli dietro massicce dosi di retorica. In Italia abbiamo «piccoli terremoti e pessime case», ha ricordato il Presidente del Comitato grandi sismi della Protezione civile, Giuseppe Zamberletti. Si pensi alla casa dello studente o all'ospedale aquilano. La notizia è che il solo edificio pubblico dotato di requisiti antisismici (vale a dire la palestra) è rimasto integro. In California - infierisce Franco Barberi, presidente onorario della Commissione alti rischi - «un sisma simile non avrebbe causato un solo morto». Insomma, che il patrimonio edilizio di questo Paese sia totalmente vulnerabile e che nessuna precauzione sia stata mai, dicasi mai, adottata (neppure nelle zone a più alto rischio) mi sembra oramai acclarato. In particolare la zona dell'Aquilano è segnata in categoria uno nelle mappe sismiche, ma stranamente per la Regione Abruzzo è urbanisticamente a livello due e che quindi non impone costruzioni speciali». Allora si capisce perché a crollare come castelli di sabbia siano stati edifici di recente fabbricazione, e non soltanto le vecchie case del centro storico o quelle dei paesi di più antico insediamento, che pure avrebbero dovuto essere messe in sicurezza. D'altra parte, il comportamento della regione Abruzzo è perfettamente in linea con la latitanza del governo centrale. E' il Sole24Ore di ieri che documenta come l'impegno solennemente assunto dal Pifferaio di Arcore dopo il sisma del 2002 in Molise, nel quale perirono 27 bambini sepolti sotto le macerie della scuola di San Giuliano di Puglia, sia finito nel nulla. Il decreto che conteneva dettagliate prescrizioni per la costruzione dei nuovi edifici e per la messa in sicurezza di quelli esistenti è naufragato, nelle mani dei governi che si sono alternati alla guida del Paese. Di proroga in proroga, di rinvio in rinvio. La verità è che dentro vicende drammatiche come questa si specchia la realtà di un Paese che ha adottato il laissez faire, la deregolazione in ogni campo come metodo. E poi ancora la speculazione edilizia, la devastazione ambientale, i profitti lucrati sulla elusione delle norme antinfortunistiche, oltre a quelli derivanti dall'evasione fiscale. Grazie al Pifferaio la politica, in definitiva, altro non è che lo specchio della società, di cui essa non fa che mettere in scena i vizi su una più visibile ribalta. Può darsi che ci sia qualcosa di vero in questa peraltro autoassolutoria rappresentazione. Salvo che la politica dovrebbe coltivare un'ambizione pedagogica, piuttosto che inseguire l'opportunismo, lo spregiudicato affarismo e farsi lievito dei peggiori istinti predatori. Resto comunque visibilmente affascinato dal grande movimento di spontanea, seppur disordinata, solidarietà che da ogni dove si stringe attorno alle popolazioni colpite. E lo confronto con le disfunzioni (macroscopiche, malgrado la prosopopea di cui è circondata) della nostra Protezione civile. «Fra le più efficienti del mondo», ha sempre detto il Pifferaio. Ma ad Onna, il paesino che non c'è più, i sopravvissuti non potevano contare neppure su una tenda dove pernottare. Venti ore dopo il sisma.

domenica 5 aprile 2009

un gigante dai piedi d'argilla


Su questo blog ho scritto in passato della piaga sociale e umana delle morti bianche, delle morti senza volto e senza nome nei cantieri, per finire al tristissimo episodio della ThyssenKrupp. Ma questa volta, per una volta, voglio focalizzare l'attenzione e puntare il dito d'accusa contro quell'ente che, a mio parere, in 100 anni poco ha fatto (per non dire nulla) affinchè certe tragedie non accadessero. Sto parlando naturalmente dell'INAIL. Negli ultimi anni si è discusso molto degli infortuni che si sono verificati nei luoghi di lavoro. Si sono levate voci di sdegno, appelli da parte degli intellettuali, sindacalisti, personalità, politici. Anche il Pontefice ed ancor di più il Presidente della Repubblica, in presenza di stragi, hanno fatto sentire la loro voce. Ma nessuno, di fronte al dramma dei morti e dei feriti sul lavoro, ha chiamato in causa l'INAIL, l'Istituto che dovrebbe tutelare chi si infortuna o contrae una malattia a causa del lavoro svolto. L'INAIL è stato costituito il 17 marzo del 1898 da una legge dello Stato che prevedeva l'obbligo per i datori di lavoro di assicurare i dipendenti e per l'Istituto di risarcire chi si infortunava, liberando il datore di lavoro da ogni responsabilità civile. Per salvaguardare la vita e la salute sui luoghi di lavoro i sindacati (non certo i politici di area berlusconiana) si sono sempre spesi chiedendo più sicurezza, controlli efficaci, pene severe. Si sono scontrati con una testarda contrarietà dei datori di lavoro in quanto le misure di sicurezza sono onerose: per i padroni la vita vale meno del profitto. Si deve prendere atto che malgrado tutti i tentativi non si è riusciti ad impegnare l'INAIL in un'opera di prevenzione e di controllo: l'Istituto si limita a risarcire il danno ed a gestire un consistente patrimonio immobiliare. Quando si parla di infortuni o di malattie professionali ci si limita ai morti, che continuano ad essere più di 1.000 ogni anno, cioè l'evento più tragico. Vorrei far notare che si infortunano ogni anno più di un milione di lavoratori e che circa 70mila rimangono menomati permanentemente. Il risarcimento non viene erogato se la menomazione è inferiore al 6% mentre per valori dal 6 al 16% viene risarcita con un una- tantum, ed è la metà dei casi. Se la menomazione è superiore al 16% viene concessa una rendita. Le rendite attualmente corrisposte dall'INAIL sono 976mila. Mediamente l'importo è di 4.357 euro l'anno. Gli infortunati non sono solo lavoratori come normalmente si ritiene: il 10% degli infortuni mortali (99 nel 2008) sono lavoratori e 250mila le vittime di un infortunio su un milione. L'Istituto ha anche compiti di prevenzione e riabilitazione ma il suo impegno maggiore è nella compravendita degli immobili, un patrimonio che sta alienando. Non solo, i suoi agguerriti collegi medico-legali e studi associati operano per limitare il riconoscimento ed il grado del danno, riducendo al minimo l'indennizzo o il vitalizio ed il rimborso delle spese di riabilitazione. L'Istituto, secondo il consuntivo del 2007, ha un attivo di 12 miliardi e 333 milioni di euro e supererà i 13 nel 2008. A che servono questi 13 miliardi? Chi li sta utilizzando? E con quali scopi? Certamente non per prevenire gli infortuni o impedire che ci si ammali e muoia per il lavoro svolto maneggiando sostanze nocive, respirando polveri, operando in ambienti rumorosi ed insalubri. L'emanando decreto del ministro del Welfare Maurizio Sacconi stravolge le finalità della legge varata dal Governo Prodi che, tra l'altro, prevedeva pene più severe per i responsabili degli infortuni. E' un decreto che libera le imprese dalla responsabilità penale e le autorizza a comprare l'impunità con qualche migliaio di euro. Il decreto è stato declassato dalla stampa e dagli organi di informazione a notizia dovuta, ma marginale. Invece il sottoscritto (seppur nella minima risonanza mediatica di questo blog) vuole evidenziare questa mostruosità, dedicando all'argomento questo post in prima pagina. Una notazione non di poco conto (e da ciò si dovrebbe desumere della mia buona fede politica e non faziosità come qualche lettore mi scrive): le posizioni nel Partito Democratico su questo tema come sempre sono variegate. Tra le tante, tutte tiepide, spicca quella di un suo deputato, l'industriale Massimo Calearo che dichiara: «Le manette non evitano le tragedie». Personalmente, invece, ritengo che siano necessarie norme più severe oltre a consistenti investimenti per garantire la vita e la salute di chi lavora. A mio modo di vedere si dovrebbero unificare le gestioni degli Enti previdenziali, compreso l'INAIL, per dare vita ad un sistema di vigilanza e di ispezione in grado di effettuare controlli rigorosi e permanenti nei luoghi di lavoro in ordine alla sicurezza. Per quanto riguarda la contribuzione, il rispetto dei contratti, il lavoro straordinario e quant'altro nei diritti dei lavoratori si dovrebbe cambiare registro: risparmiare sui costi di gestione, sulle sedi, suicollegi medico-legali, sui sistemi informatici dell'INAIL per riconvertire il tutto in migliaia di impiegati e funzionari preposti all'attività ispettiva. In secondo luogo andrebbero aumentate le rendite ed i vitalizi che sono vergognosamente modesti (così come chiedono anche le Associazioni dei mutilati ed invalidi del lavoro). Mi sembra che gli euro all'INAIL non manchino. Il mondo imprenditoriale italiano è miope e gretto, finge di ignorare l'enorme costo economico degli infortuni e delle malattie professionali causato da milioni di lavoro che si perdono per la cura, la riabilitazione, il pagamento delle rendite, spese di cura e di riabilitazione: è la collettività che paga. Credo che sia il caso di alzare la voce e far capire che ora di cambiare le cose. Iniziando a sostituire quei piedi di argilla (del gigante degli infortuni) che fanno il paio con la ferrea voracità nell'ingoiare milioni di euro. A beneficio dei soliti noti...

sabato 4 aprile 2009

il Gatto & la Volpe al G20


Oramai sono inseparabili come Gianni e Pinotto, come Sandra e Raimondo, come Stanlio e Ollio. Di chi sto parlando? Ma è naturale, della coppia politica più televisiva di tutti i tempi, del duo mediatico più efficace sulla piazza: signore e signori, Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Ne sono più che sicuro. Se non fosse stato per il comportamento sopra le righe del presidente del consiglio a Londra, la partecipazione dell’Italia al G20 sarebbe passata sotto silenzio. La prontezza di spirito del premier nel rubare la foto del giorno tra Barack Obama e Dimitrij Medvedev (che rivedrà da lunedì a Mosca dove si recherà a capo di una missione imprenditoriale targata Confindustria-Abi), è tuttavia bastata a rimuovere l’idea che l’Italia è rimasta fuori dai canali negoziali al tavolo del G20. E non solo per carenza di peso specifico del nostro Paese, ma anche per mancanza di idee da mettere in campo. A cominciare dal social pact che si è rivelato per quello che è: una dichiarazione sulla dimensione sociale della crisi. Se al G20 l’unica stella a brillare è stata quella del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi (che guida con successo il Financial Stability Forum), al contrario il superministro dalla erre moscia (suo oppositore in patria) ha dovuto incassare un rimprovero tutt’altro che educato dal suo presidente. (Berlusconi a Tremonti: «I ministri stavano al cesso»). I rapporti tra i due sono sempre più tesi tanto che, se è vero che Tremonti ha dovuto incassare le pesanti battute del premier, quest’ultimo ha dovuto smentire se stesso rassicurando che non è intenzione del governo sforare i parametri di bilancio previsti dall’Uem. E così a Tremonti, che si vanta di aver visto la crisi prima degli altri, è toccato l’infelice compito di sostenere che il governo italiano invece di pensare agli ammortizzatori sociali vorrebbe intervenire con strumenti addizionali ex ante. Idea felice se fosse arrivata un anno fa, quando la crisi non mordeva ancora, e non ora quando si contano già le vittime. È poi singolare che, mentre Francia e Germania creano un asse comune per inchiodare i 20 sulle regole finanziarie, con Draghi a dar loro una mano sulla richiesta di uno sforzo di trasparenza sui bilanci bancari e sui paradisi fiscali, l’Italia (che ha un welfare più carente degli altri partner europei) voglia sottolineare il carattere sociale della crisi. Compito ingrato quello di Tremonti, che in questi mesi per mascherare l’assenza di una politica anticiclica, si è eretto a difensore dei saldi di bilancio, tipico del commercialista (quale egli è sempre stato...). Compito tanto più scomodo nei prossimi mesi, quando l’impatto della crisi si riverserà in modo pesante sul mondo produttivo, senza che l’Italia abbia messo in atto le misure tedesche di sostegno e neanche quelle francesi. Il carisma mediatico del Pifferaio, al quale guarda con ammirazione una buona fetta degli italiani, non potrà ancora per molto tacitare i malumori e le tensioni che la crisi, in termini di discriminazioni sociali, sta iniziando a produrre. Senza contare che l’unico risultato per l’Italia che i nostri sherpa stavano negoziando, ovvero un rilancio del Doha Round al G8 della Maddalena, non è stato incassato granchè dal premier troppo impegnato a monopolizzare l’attenzione di Mr. Obama e a fare le solite battute da occasionale show man da nave da crociera.

venerdì 3 aprile 2009

la Consulta rende giustizia alle donne


Voglio dedicare questo post n. 600 ad un argomento che in passato non avevo mai toccato (se non per sommi capi dopo il caso Englaro) e che oggi sicuramente ho nelle mie corde, naturalmente dopo essermi documentato. Il dibattito seguito alla morte di Eluana Englaro sul percorso di fine vita ha riconsegnato l'identità di quel corpo femminile, il suo destino di sopravvivenza biologica surrogata nelle funzioni vitali, all'essere corpo capace di generare, incubatrice potenziale di un feto dotato di un autonomo diritto alla vita. Non che sia un argomento nuovo: se ne discetta dai tempi di Aristotele, attraversa tenacemente i secoli in forme e con modalità storicamente date, ma resta pervicacemente ancorato al riprodursi del dominio maschile sulla capacità riproduttiva del corpo femminile. Nuovo è il contesto, dato oggi dalle biotecnologie applicate alle pratiche sociali e culturali con cui si affrontano la morte, la vita, la malattia o la nascita. Tutte questioni che richiedono percorsi e spazi pubblici di confronto tra pensieri, parole, esperienze esistenziali diverse, tali da consentire che emerga, cresca e si affermi una cultura politica condivisa e non precostituita da un legislatore-demiurgo. Al contrario, l'avvento delle biotecnologie nel nostro Paese prende senso nella dimensione pubblica della produzione di leggi emanate sotto il segno della reazione e della fretta, dello stato di emergenza costruito intorno alla spettacolarizzazione, generalizzazione e strumentalizzazione di casi e situazioni specifiche. Leggi improvvisate, che hanno come punto comune di caduta la riduzione ideologica del corpo femminile a funzione riproduttiva, l'annientamento delle soggettività e della presenza diffusa di relazioni sociali e culturali, di pratiche e di esperienze non oggettivate, fatte di storie umane concrete di donne e di uomini, che si svolgono e prendono senso in tempi e luoghi dati, e nella trasmissione della memoria. Ad esse si contrappone una costruzione di senso che trascende i soggetti e le biografie, di cui sono protagoniste le gerarchie vaticane che si riaccreditano con forza crescente come le sole depositarie della conoscenza sulla vita e sulla cosmogonia. Ma vi contribuisce anche una crescente e autonoma vocazione del premier e del suo partito alla ridefinizione e semplificazione dei poteri, alla rimessa discussione della democrazia facendo leva su dubbi, timori, incertezze e contraddizioni aperti dall'avvento delle tecnologiche del corpo e dalla loro applicazione. Essi richiederebbero tempi e spazi di discussione e elaborazione di più ampio respiro di quelli di un dibattito parlamentare contingentato. Per questo è importante che la Consulta abbia riconosciuto l'incostituzionalità di alcuni dei passaggi più punitivi e misogini della legge sulla fecondazione assistita, superando alcune delle contraddizioni lasciate aperte dalla pronuncia con cui aveva respinto il referendum di abrogazione totale della legge. La Corte aveva infatti ritenuto che la sua cancellazione totale potesse comportare pregiudizio di principi e valori costituzionali, nonostante la dottrina e la giurisprudenza avessero già allora sollevato diversi elementi di incostituzionalità. Ma la stessa Corte aveva anche ritenuto che quella legge potesse essere sottoposta a un giudizio di legittimità, come è avvenuto con successo. Si tratta di un risultato importante, perché riafferma la democrazia come forma di distribuzione e reciproca autonomia tra i poteri. Incluso quello del ricorso popolare alle sedi giurisdizionali, quando la politica non sa dare risposte adeguate alla libera e piena espressione della persona sessuata e pensante.