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martedì 30 settembre 2008

Renata, nuova first lady del sindacato


L'affare Alitalia ha consacrato definitivamente l'UGL (Unione Generale del Lavoro) come quarta forza sindacale al tavolo delle trattative e ancor di più il segretario Renata Polverini come nuova indiscussa first lady dei sindacati, oltre che apprezzata presenza femminile "parlante" del talk show politico di Giovanni Floris "Ballarò". A fare il miracolo di sdoganare l'UGL, piccolo sindacato che dichiara oltre due milioni di iscritti ma che è sempre stato in passato confinato in ruoli marginali, è stata quindi la romana 46enne caparbia e telegenica, sposata senza figli con un perito informatico che ha conosciuto ai tempi del liceo. Renata è, come si dice in questi casi, figlia d'arte: sua madre, sindacalista alla vecchia Cisnal della Rinascente, l'ha cresciuta a "pane e sindacato" introducendola giovanissima nella segreteria di quello che era considerato all'epoca "il sindacato dei fasci" vicino al vecchio MSI di Giorgio Almirante, prima di confluire nell'attuale UGL. Renata sale, uno ad uno, tutti i gradini della carriera sindacale fino a diventare, nel 1998, responsabile delle relazioni internazionali e comunitarie, come rappresentante UGL, all'interno del CESE (Comitato Economico e Sociale Europeo). Qui stringe solidi legami di amicizia con Guglielmo Epifani ed è tutto un continuo crescendo: tra il 1999 e il 2005 le affidano la guida della Federazione del terziario, si occupa delle principali vertenze unitarie a partire da quelle del pubblico impiego e della FIAT di Melfi. Nel febbraio del 2006 arriva la meritata incoronazione a segretario generale dell'UGL da parte del segretario uscente Stefano Cetica e con la benedizione di Gianfranco Fini. La Polverini ringiovanisce i vertici, cambia il colore dell'organizzazione dal nero al rosa con più donne ai piani alti e lancia una campagna di "avvicinamento" alle altre tre confederazioni sindacali che fino ad allora tenevano in disparte il sindacato filomissino. Nel frattempo, da ottima tessitrice di rapporti interpersonali, organizza nel salotto della sua bella casa all'Aventino cene ed incontri con la partecipazioni di politici navigati, giornalisti e sindacalisti di grido. Nomi di spessore come quelli di Gianni Letta, Guglielmo Epifani, Pierpaolo Baretta, Gianfranco Fini e Gianni Alemanno non si fanno certo pregare nel frequentare il suo discreto e ben variegato salotto. Nel frattempo la Polverini stringe anche rapporti amichevoli con Walter Veltroni che non ha mai negato di averla "corteggiata" politicamente ma inutilmente (visto le origini non proprio "rosse" della Renata...). Comunque, anche grazie a questa intensa attività di pubbliche relazioni, la Polverini si è guadagnata il "pass" per la convocazione ai più importanti negoziati pur senza avere i numeri della rappresentanza sindacale, come nel caso del pubblico impiego, dove l'UGL, sebbene non superasse lo sbarramento del 5%, è stata di fatto ammessa a tutti i negoziati con il governo. Diventando così, la vera e indiscussa first lady dei sindacati. Complimenti signora Renata!

lunedì 29 settembre 2008

Lilli & la reprimenda (fuori luogo) di Avvenire




Francamente è un pò di tempo che sto notando come alcune rappresentanze del mondo cattolico, in particolar modo quelle espresse tramite la stampa quotidiana e settimanale, si stiano pervicacemente (secondo me senza ragione) e ottusamente occupando di persone e fatti al di fuori del loro contesto operativo di discussione, che a rigor di logica dovrebbe essere costituito da salmi e gloria padre. Invece i direttori di Famiglia Cristiana prima (basta rileggersi qualche articolo a tal proposito, http://www.repubblica.it/2008/03/sezioni/politica/verso-elezioni-8/famiglia-cristiana/famiglia-cristiana.html o anche http://www.repubblica.it/2008/08/sezioni/cronaca/sicurezza-politica-13/attacco-famiglia-cristiana/attacco-famiglia-cristiana.html) e quello di Avvenire poi hanno dato il cattivo esempio di chi mette il becco in affari che non li riguardano nè direttamente nè tantomeno teologicamente. Ma il caso più clamoroso riguarda la reprimenda esercitata sulle pagine del quotidiano cattolico dal direttore Dino Boffo che, rispondendo ad una lettrice, bacchetta sia professionalmente che umanamente la povera Lilli Gruber, rea di non esercitare al meglio il suo diritto-dovere nell'informare il pubblico televisivo de La7 nella sua nuova conduzione di Otto e mezzo e addirittura criticandola per aver abbandonato il seggio da europarlamentare. Volevo riproporre la lettera della lettrice e la risposta del direttore di Avvenire, facendo però prima una piccola chiosa. A mio parere, censurare e bacchettare professionalmente una signora del giornalismo (televisivo e non) come la Gruber suscita un pò il senso del ridicolo. Da quale pulpito (è proprio il caso di dirlo) professionale proviene il predicozzo? Da un direttore di un quotidiano che ha lo stesso numero di lettori pari al totale degli inquilini del mio palazzo. Un direttore-sacerdote che, invece di pensare ad assolvere qualche peccato commesso dai suoi fedeli, se ne esce con le reprimende fuori luogo e fuori tempo massimo. Andiamo su, siamo seri caro Boffo. Pensiamo a censurare e bacchettare (se ne ha voglia e tempo) gli sculettamenti delle signorine in cerca di notorietà di cui sono pieni gli schermi televisivi degli ultimi anni (e senza dover andare su isole lontane...), piuttosto che mettere in mora le qualità tout court di chi da trent'anni è in tv ed è andata a sfidare le bombe in qualità di inviata di guerra invece che starsene al caldo di una redazione o di pontificare da qualche pulpito reale o virtuale che sia. Ecco ora il testo della lettera e della risposta di Boffo.
Caro Direttore, ho appena seguito in 'Otto e mezzo' la discussione introdotta dalla signora Lilli Gruber, da cui apprendo che i vescovi italiani tramite Avvenire si mostrerebbero contrari all’introduzione del doppio cognome al figlio della coppia. E da questa asserzione ci si domandava come mai la Chiesa italiana interferisca anche in questo, ecc... Subito apro Avvenire (24/9) e leggo l’editoriale di Francesco Riccardi in cui si disapprova l’intervento della Cassazione, che forza un cambiamento della legge attuale e dà via libera a un’altra normativa, sostituendosi al legislatore. Non si parla affatto di contrarietà o resistenza dei vescovi a un eventuale cambio della legge attuale, già proposto d’altronde nella passata legislazione. Come spiegare questo abbaglio della signora Gruber? Lucia Elvira Cattaneo.
Nessuna buona azione rimarrà impunita, celebre battuta che stavolta mi calza a pennello. Così, dopo aver scelto dapprima di sorvolare sui contenuti della seconda puntata di 'Otto e mezzo', è lei stessa, gentile signora, a impormi di mettere nero su bianco qualche considerazione purtroppo sgradevole. Non vorrei tanto soffermarmi sull’abbandono anzitempo del seggio europeo per tornare davanti alle telecamere: continuo a considerare non proprio elegante il comportamento di chi tratta la rappresentanza politica parlamentare – nazionale o europea che sia – come un giocattolo che qualcuno regala a prescindere dagli elettori e che si può abbandonare disinteressandosi degli stessi, solo perché se ne affaccia un altro che pare più stimolante. Mi chiedo piuttosto come può una giornalista di fama 'progressista' non provare qualche remora a diventare la bandiera di una tv che in perfetta simultanea col suo arrivo espelle venticinque colleghi, ma riconosco che la mia idea di buon gusto può non combaciare con quella di Lilli Gruber, giornalista che personalmente conosco e alla quale non fatico ad accreditare un certo appeal, impastato da una buona dose di disinvoltura. Venendo però alla questione specifica, non posso far altro che riconoscere che lei, signora Cattaneo, ha perfettamente ragione: l’intemerata contro noi di Avvenire (i vescovi cosa c’entrano?) dimostra che la conduttrice non aveva letto l’articolo del collega Francesco Riccardi. Lo criticava davanti alla platea televisiva, ma non l’aveva letto. Infatti non c’è neppure una riga nel pezzo di Riccardi che condanni l’ipotesi che si aggiunga il cognome della madre a quello del padre. L’articolo denunciava il fatto che a promuovere l’iniziativa fosse non una legge ma, ancora una volta, una decisione 'innovativa' della – recidiva – Prima Sezione della Corte di Cassazione. La nostra idea di democrazia prevede che a varare le leggi sia il Parlamento e che alla magistratura competa la loro applicazione fedele. Questo era il tema, evidente fin dal titolo, che non a caso suonava così: 'L’insostenibile creatività della solita sezione', quella che animata da una nota magistrato-donna sta pezzo dopo pezzo ri-scrivendo il diritto di famiglia, surrogando senza remora alcuna il povero Parlamento. Che non fiata. Dell’anomalia s’è accorto persino il 'Corriere della Sera' che l’altro giorno, grazie alla penna di Paolo Franchi, ha efficacemente stigmatizzato l’allegro andazzo. Ma 'Otto e mezzo' ha preferito buttarla in caciara, farne una questione di genere. E tuttavia si può chiedere anche a una divinità del video di documentarsi (cioè di leggere) prima di criticare? Certo che si può. Si deve farlo.

venerdì 26 settembre 2008

Feltri & il pifferaio magico (di Arcore)




In questi giorni frenetici dedicati alla soluzione del caso Alitalia ho avuto un occhio di riguardo nel seguire le uscite editoriali di Vittorio Feltri sul suo giornalino milanese che paradossalmente ha scelto di chiamarsi Libero quando invece proprio non lo è. E la riprova l'ho avuta (se mai ce ne fosse stata necessità) anche stamani con il solito editoriale improntato al più classico delle genuflessioni nei riguardi del suo padre putativo (non potendolo essere, per fortuna, naturale), vale a dire il sempre presente e idolatrato cavaliere. Tanto per non scontentare il suo occulto editore di riferimento, in questi giorni impegnato in saune e massaggi antistress in terra umbra, ecco il Feltri bombardare con chirurgica precisione il ben conosciuto obiettivo delle lagnanze di questi giorni del cavaliere: Epifani e la CGIL. Infatti il titolo scelto per l'apertura della prima pagina del suo giornalino è "Pagliacciata CGIL", mentre l'occhiello recita "Epifani firma in ginocchio", per finire con il sommario che ci informa "Il segretario del sindacato, dopo aver affondato la trattativa, si pente e sigla l'intesa che aveva respinto una settimana fa. Oggi i piloti sciolgono le riserve". Sembra un Bignami del pensiero berlusconiano ripetutamente enunciato in questi giorni in tutte le salse, con l'aggiunta della paprika dedicata al management di Alitalia degli ultimi dodici anni, rei di aver dissanguato economicamente e socialmente la nostra compagnia di bandiera, ma stranamente lo scaltro Feltri omette di evidenziare che in questi dodici anni il suo padrone è stato al governo per ben sette anni (che non sono pochi) e a quanto pare di danni ne ha fatti anche lui. Eccome se ne ha fatti. Ma l'occhialuto direttore fa finta di niente e svicola su altre traiettorie a lui più favorevoli; lancia strali contro il sindacato e gli esponenti dei piloti e degli assistenti di volo; fa un pò da personale valle dell'eco per il cavaliere: replica all'infinito il pensiero di Sua Emittenza, lo infiocchetta come meglio non potrebbe e lo presenta agli stolti lettori che ancora credono di leggere un giornale Libero. Feltri sembra uscito proprio dalla favola dei fratelli Grimm ("Il pifferaio magico" o "Il pifferaio di Hamelin"), dove lui ricopre il ruolo del borgomastro che assolda il pifferaio promettendogli una lauta ricompensa affinchè suoni e liberi la cittadina dai ratti che l'avevano invasa. Ovviamente chi meglio di Berlusconi potrebbe incarnare il ruolo del pifferaio visto e considerato che il suo multipiffero (televisioni, quotidiani, settimanali, partito di plastica) è in grado di incantare i ratti (in questo caso i comunisti) e trascinarseli dietro fino al fiume lasciandoli affogare? Orbene, spero proprio che qualche ratto sia riuscito a non affogare (ho visto in tv un discreto Veltroni) anche perchè c'è sempre una pur flebile speranza che sia il pifferaio sia il borgomastro un giorno possano andare a farsi una bella nuotata beccandosi una bella leptospirosi...

giovedì 25 settembre 2008

la difficile partita del cavaliere


La notizia dell'incontro di questa mattina alle 11 a Palazzo Chigi tra la CAI, il governo e le 9 sigle sindacali, sembra essere il preludio (ma la cautela è sempre consigliabile) alla chiusura di questa estenuante, infinita ed insopportabile "partita" sulla vicenda Alitalia. Una partita, a parer mio, che ha visto sempre e comunque l'ombra del cavaliere stagliarsi sia dietro che davanti il palcoscenico della trattativa. La riconosciuta pervicacia (che a volte sfiora l'ottusità) del premier ha prodotto un risultato: dilazionare e procrastinare l'innominabile e sciagurato esito di una fine già scritta, vale a dire il fallimento della nostra compagnia di bandiera. I suoi interventi, i suoi attacchi al sindacato e alla sinistra (in particolare ad Epifani e Veltroni), i suoi continui discorsi permeati di zuccheroso ottimismo hanno, almeno in parte, alleviato la crudele agonia del gigante dei cieli (o per meglio dire, ex gigante) e foraggiato un pur minimo senso di speranza da parte dei circa ventimila dipendenti, e delle loro famiglie, sull'orlo del licenziamento. Ed ora che con questo incontro di stamattina a Palazzo Chigi si riannoda quel seppur tenue filo di speranza per giungere al termine, mi sovviene che quel famigerato partito del "tanto peggio, tanto meglio" non c'è mai stato, seppur evocato dal cavaliere in varie occasioni. Non c'è stato perchè tutti i protagonisti della querelle non avevano in animo di spezzare quel filo, non erano così masochisti ed autolesionisti da voler suicidarsi moralmente ed economicamente. Ma ogni tanto, ca va sans dire, bisogna pur sottoporsi a qualche fermo immagine a favore di telecamera. Tornando alla partita del premier, mi viene da pensare che il tutto è stato giocato secondo le sue convenienze elettorali, abilmente mascherate dall'apparente difesa degli interessi nazionali. Tutte le dolorose stazioni del calvario della compagnia di bandiera nascono da quel peccato originale, che ha prodotto una sequenza impressionante di anomalie. La casareccia "coalizione" messa in piedi da Ermolli, il ridimensionato piano industriale messo insieme da Banca Intesa, la stupefacente sospensione delle regole antitrust per salvare la tratta Roma-Milano, la sorprendente nomina di un commissario straordinario (Fantozzi) che risponde prima all'esecutivo e poi (seppure) al tribunale. E poi il "preambolo" autarchico sul socio estero, la rottura del tavolo, l'avvio di una finta "gara" di cui nessuno ha capito i numeri, i termini, i contenuti, e in cui tutti abbiamo assistito a un siparietto surreale: di là Fantozzi che sollecita la "manifestazione di interesse" da parte dei potenziali partner internazionali, di qua Berlusconi e Sacconi che ripetono l'aut-aut ossessivo e preclusivo: o Cai, o fallimento. Così siamo arrivati a un drammatico foto-finish, con un governo che per non svendere la compagnia fa di tutto per farla fallire. Ma adesso, caro cavaliere, la partita è proprio finita. Anche i tempi supplementari se ne sono andati. Non rimangono che i calci di rigore, questa mattina alle 11. Ma non sempre le cose vanno a finire bene come nel maggio 2003 all'Old Trafford di Manchester...

lunedì 22 settembre 2008

il Silvio furioso


Meno male che ieri sera ci hanno pensato Seedorf, Zambrotta, Pato e Kakà a rasserenare l'animo fino ad allora alquanto agitato del presidente del Consiglio (nonchè dell'A.C. Milan) Silvio Berlusconi. Figurarsi quale sarebbe stato l'umore del cavaliere questa mattina, alla ripresa di una settimana politico-finanziaria che si annuncia molto tesa, se il suo Milan fosse stato in classifica ancora ultimo (in coabitazione con il Cagliari) a zero punti dopo tre partite di campionato. Avrebbe dato la colpa di tutto non già al povero Ancelotti o a qualche giocatore (o magari a qualche arbitro), ma solo all'unico (per lui, s'intende) terminale di ogni situazione negativa in Italia: vale a dire il leader della CGIL Guglielmo Epifani. Francamente sarebbe stato troppo per il sindacalista vedersi appioppare anche le cause derivanti dalle non brillanti performances della squadra rossonera, oltre a tutte le accuse piovutegli sul capo in questi ultimi giorni per la situazione di Alitalia. Ma come se non bastasse proprio ieri sera (durante una cena in uno noto ristorante meneghino per festeggiare la prima vittoria del Milan) il cavaliere ha rincarato la dose di aspre polemiche sul sindacato e sulla sinistra in genere, sui piloti e sulle manifestazioni contrarie esibite in quel di Fiumicino l'altro pomeriggio all'annuncio del ritiro dell'offerta di acquisto da parte della CAI. Letteralmente furioso, Sua Emittenza non ha rinunciato al suo solito e ben conosciuto linguaggio forbito e oxfordiano. Infatti, rispondendo al direttore del quotidiano on line, Angelo Maria Perrino, che gli chiedeva: "Presidente, più facile battere la Lazio o il leader della CGIL Epifani?", Berlusconi rispondeva: "Sono degli irresponsabili. Non guardano al bene del Paese e ai guai sociali che potrebbero derivarne. Stanno facendo di tutto per far saltare l'accordo". Aggiungendo: "Hanno perfino definito gli imprenditori della cordata CAI dei banditi, con il risultato di scoraggiarli e demotivarli. Ora la loro ricetta produrrà solo disoccupazione e disastri. Ma loro vanno avanti...Che roba!Incredibile". Certo, sentirsi apostrofare imprenditori amici ed ossequiosi con il termine poco edificante di "banditi" non deve essere stato molto piacevole per il cavaliere. E' come parlare di corda in casa dell'impiccato. E francamente sono anche alquanto preoccupato per lo scoraggiamento e per la demotivazione di Colaninno e compagni. Poverini.

sabato 20 settembre 2008

un avvocato che sembra una velina


A guardarla bene, nelle foto e nella sua estemporanea incursione sulle nostre tv e nei telegiornali, Chiara Zardi, avvocato d'ufficio presso il Tribunale di Milano, sembra avere più le physique du role da velina che da principe del Foro, con quel bel visino che non sfigurerebbe certo in una finale di Miss Italia e con la parlantina giusta ed appropriata davanti alle telecamere. Assurta ieri al ruolo di "star per un giorno", nel palazzone di giustizia milanese, per essere stata scelta (a caso e tramite il call center quasi fosse l'estrazione della riffa) come difensore d'ufficio di sua maestà Re Silvio nel processo Mills presieduto dalla famosa Nicoletta Gandus, giudice non propriamente nelle grazie di Sua Emittenza, la bella 28enne laureata in giurisprudenza e avvocato da appena due anni ha retto bene la scena. Scaraventata all'improvviso sul palcoscenico mediatico e giudiziario della piazza milanese, la Chiara Zardi è stata impeccabile e irreprensibile nel suo ruolo a metà tra la bellezza da bancone di Striscia e la seriosità da aula di giustizia. Ha affrontato con piglio e impavidità l'assalto delle telecamere e dei microfoni avidi di rivelazioni sul suo nuovo ruolo da difensore dell'uomo più inquisito d'Italia; le hanno anche chiesto ragguagli sull'entità dell'eventuale parcella da presentare al cavaliere per la sua prestazione professionale, e lei, tranquilla, afferma che applicherà le tabelle dell'Ordine (un omaggio, forse, alle liberalizzazioni di Bersani...) senza sconti ma anche senza "creste". In buona sostanza un avvocato da tenere a mente (sperando ovviamente di non averne mai bisogno nella vita) per il futuro, con l'unico rammarico di non averla potuta ammirare negli abiti succinti da provinanda di Veline. Peccato.

mercoledì 17 settembre 2008

abusivismo alto di gamma


Bisogna proprio dirlo. C'è abusivismo e abusivismo. C'è quello del furbacchiotto ex contadino arricchitosi con qualche marachella fiscale e che fischiettando alza su un piano di troppo rispetto alla planimetria originale. E c'è quello dell'onorevole, giornalista e scrittore di nome e di successo che crede di farla franca per le sue altolocate conoscenze. Centoventi metri quadri a Roma, all'Aventino (mica pizza e fichi). Un appartamento completamente abusivo, almeno secondo i vigili urbani, i tecnici dell'ufficio abusivismo del Comune di Roma e anche secondo la magistratura. Il furbetto in questione si chiama Ferdinando Adornato, ex iscritto al Partito Comunista Italiano, ex giornalista de l'Unità, ex parlamentare di Forza Italia e attuale sostenitore dell'UDC e di Casini. Tomo tomo, cacchio cacchio, l'Adornato si è ingegnato: da uno sbancamento del terrapieno di un palazzo del dopoguerra in uno dei quartieri "in" della Capitale (l'Aventino per l'appunto), ha ricavato i 120 metri quadri costituiti da una sauna con vasca piscina per quattro persone, un salone con angolo cottura, un salottino con juke-box d'annata, parquet, poltroncine bianche e bocchettoni dell'aria condizionata costruiti al posto del giardino che, sulla carta, ha la pretesa di essere un pergolato. Il tutto confinante con i 180 metri quadri "regolari" dell'originale appartamento dell'onorevole furbone. Ovvio che siano scattate le procedure per il sequesto preventivo dell'ingegnosa "opera" abusiva, seppur di alto livello qualitativo. Adornato a domanda risponde: "Nessun abuso. Abbiamo realizzato un piccolo ampliamento, basandoci sulle cartine del catasto. Per quanto riguarda il giardino, la struttura che abbiamo fatto è una semplice veranda...". Praticamente pinzillacchere, quisquilie.

martedì 16 settembre 2008

il suggerimento di FELTRI




La mia inquietudine di questi ultimi giorni (da venerdì non postavo) ha avuto finalmente termine. Una reale inquietudine non tanto (e non solo) per la vicenda Alitalia, quanto per il singolare silenzio del mio comico preferito (dopo il cavaliere, naturalmente), vale a dire Vittorio Feltri. Ebbene sì, la sua astensione di pensiero sul caos della nostra compagnia di bandiera mi aveva fatto temere uno sciopero anche del cervello del direttore di Libero. Fortunatamente così non è stato: questa mattina, infatti, leggendo la prima pagina del giornalino milanese mi sono rinfrancato ed ho gioito intimamente per la sua presa di posizione e per il suggerimento dato al suo occulto (mica tanto) datore di lavoro: "Prendete piloti stranieri". Ecco la svolta, ecco la taumaturgica soluzione di tutti i mali che la fervida mente dell'occhialuto signorotto bergamasco ha partorito per mettere fine al caso Alitalia. Così scrive stamani l'Illuminato: "Gli eredi di Francesco Baracca e Antonio Locatelli nun ce vonno sta'? Amen, vadano a farsi benedire, si facciano assumere da qualcun altro. Per compensare la loro defezione si indìca un bel bando europeo allo scopo di costruire una squadra di piloti stranieri, parecchi dei quali verrebbero qui di corsa, anzi al volo". Anche la battuta ha fatto. Mitico. Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo (come Fede d'altronde). In buona sostanza il vulcanico direttore ha voluto suggerire al cavaliere l'ipotesi applicata al mondo del calcio alla rovescia: un certo calciatore non gioca bene e si lamenta del suo stipendio? Bene, diamogli un bel calcio nel sedere e chiamiamo un giocatore straniero e ricopriamolo d'oro. Se poi gioca male o è una "patacca" poco importa, tanto i soldi mica li ha cacciati Feltri. Ma a cambiare il direttore di Libero non ci ha pensato ancora nessuno?

venerdì 12 settembre 2008

il pitbull senza rossetto


Nello sconfinato universo berlusconiano ogni tanto fa capolino qualche nuovo personaggio che fino a qualche giorno fa era un perfetto carneade per l'opinione pubblica. Tu dici Denis Verdini e la gente ti risponde "E chi cacchio è?". E' il nuovo coordinatore di Forza Italia che, all'interno del Popolo della Libertà ha preso il posto lasciato libero (bontà sua) dal poeta del ventunesimo secolo, alias Sandro Bondi. Nato a Fivizzano (Massa) l’8 maggio 1951, Verdini abita a Firenze. Laureato in scienze politiche, è dottore commercialista e docente di storia delle dottrine economiche all’università Luiss di Roma. È presidente del Credito cooperativo fiorentino nonchè cultore di storia economica e degli studi su banca e moneta. Denis Verdini, già definito il mastino di Forza Italia, è ben lontano dai modi dei coordinatori che lo hanno preceduto. Il suo stile è davvero diverso e lui sembra fare di tutto per marcare la differenza. Niente a che vedere con l'etereo e sofisticato intellettualismo di Bondi; niente a che vedere con lo stentoreo formalismo di Scajola. Verdini non ci pensa due volte a dire che le elezioni «ci hanno levato dai coglioni in Parlamento tutti i comunisti». O che la sinistra è dura a morire, e come per i «serpenti non è sufficiente una sola calcagnata». «Però noi la prossima volta li stendiamo definitivamente». E senza tanti giri di parole domanda: «Il centrodestra avrà diritto di eleggere, un giorno o l'altro, un presidente della Repubblica, espressione della maggioranza degli italiani?». Quesito retorico quello che Verdini rivolge alla platea degli azzurri riuniti a Gubbio per il tradizionale appuntamento della Scuola di Formazione. La risposta è un lungo battito di mani, il segno che ha sdoganato un argomento di cui si è parlato solo nei corridoi del partito ma che nessuno finora ha posto con tanta sollecitudine. E Verdini, senza tanti peli sulla lingua, con l'irruenza del toscanaccio verace, lo dice chiaro e tondo, facendo parlare i numeri. «Il centrodestra ha sempre vinto le elezioni. Prima nel '94 poi le ha stravinte nel 2001 e le ha vinte nel proporzionale nel 2006 e poi nel 2008» eppure, arringa Verdini, nonostante questi risultati, la sinistra continua ad avere il monopolio delle istituzioni e il «centrodestra non ha mai eletto un presidente». Da Scalfaro, per Verdini «un vecchio arnese della politica» a Ciampi, «degnissima persona ma espressione del centrosinistra», fino a Napolitano che, «nonostante si fosse pareggiato le elezioni» è stato eletto. E questo non va sottovalutato, ci tiene a dire il coordinatore, giacché «nel bipolarismo e nel bipartitismo il presidente della Repubblica è determinante. È capo delle forze armate, del Csm, elegge i senatori a vita». Poi rivolto alla platea: «Mi domando: c'è un sistema di elezione diverso? Questo sistema va corretto perchè è anomalo». Ma questa è solo la prima delle sfide che Verdini lancia dalla platea di Gubbio. L'altra è quella del partito unico. Il coordinatore delinea con precisione le caratteristiche del PdL non senza una punta polemica verso An. Ignazio La Russa è assente giustificato a Gubbio (ieri era con Berlusconi alla festa dei giovani di An) ma il fatto che il partito non abbia mandato nessuno a fare da controcanto a Verdini, fa comunque parlare. Riemergono i sospetti, serpeggiano le insinuazioni anche se il presidente dei deputati del PdL Fabrizio Cicchitto e il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi smorzano le malignità. «Nessuna tensione, nessuna polemica» dicono entrambi. Ma per Verdini il PdL non può che modellarsi su FI, che porta con se la novità e sarà «la spina dorsale del nuovo partito unitario». No quindi, (e il pensiero va a An) a «nostalgie del passato». Ma Denis è Denis. Non si trattiene dall'usare un tono colloquiale per colorire le frasi. «Formigoni ha avuto tre mandati? Un altro partito glielo avrebbe dato sui denti». Anche quando parla di istituzioni scivola nell'intercalare toscano e come farebbe parlando al bar con gli amici, sanguigno e verace, si lascia andare: «Noi non s'è fatto un presidente, capite? Abbiamo vinto e non s'è fatto un presidente della Repubblica». Denis maneggia i numeri come Bondi i versi poetici. L'uno sciorina percentuali, l'altro pesca citazioni dai filosofi e dai grandi del pensiero politico. E se qualcuno durante la campagna elettorale lo ha accusato di fare il tagliatore di teste con una logica ragionieristica, lui ieri si è preso una rivincita dimostrando che il nuovo partito si fa con i numeri alla mano. E giù quindi a citare cifre mentre in platea qualcuno lo segue sbigottito e mormora: stai a vedere che ora la politica si fa con la calcolatrice. La differenza con i predecessori passa anche nell'immagine. Abbronzatissimo e attento alle camicie e alle cravatte quanto Bondi è lunare e classicamente sobrio. Qualcuno ha da ridire? È lo stile di Denis Verdini, signori. La risposta italiana alla versione a stelle e strisce del pitbull con il rossetto.

giovedì 11 settembre 2008

i misteri dell'11 settembre




A sette anni dal giorno che cambiò la storia del mondo (e degli Stati Uniti in particolare) si continua a cercare di capire se dietro la versione ufficiale ci sia o meno una verità alternativa, misteriosa e complottistica. A tal proposito mi sembra opportuno riproporre alla vostra attenzione di lettori (nonchè osservatori) una puntata speciale di Report, il programma di RaiTre condotto da Milena Gabanelli, andata in onda il 24 settembre del 2006 (http://www.media.rai.it/mpmedia/0,,report%5E10616,00.html) che potrebbe permettere un'approfondita analisi delle teorie procomplotto. Per ripercorrere invece la storia della lotta al terrorismo internazionale è consigliabile rivedersi una puntata de La Storia siamo noi di Giovanni Minoli (http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=1147). Per concludere vi ripropongo l'articolo scritto per il Corriere della Sera da Franco Venturini il giorno dopo l'attacco alle Torri, dal titolo "Il nemico invisibile". Buona lettura. Oggi l' Atlantico non esiste. Non esiste perché la guerra del Ventunesimo secolo che abbiamo visto in tv ci impone la peggiore delle globalizzazioni, perché comuni con l' America sono l' orrore e lo stupore davanti a un' apocalisse che conoscevamo soltanto dai racconti di fantapolitica. E ancor meno esiste, la distanza dagli Stati Uniti, perché nel mirino di menti diaboliche siamo anche noi con i nostri valori, perché d' ora in poi ci sentiremo anche noi inquieti e impotenti ogni volta che vedremo volare un aereo a bassa quota. Non inganni la scelta degli obbiettivi, simboli universali della potenza finanziaria e militare Usa. L' immane carneficina compiuta ieri è un attacco a tutto l' Occidente, non è retorico George Bush quando parla di «guerra alla libertà» , ed è proprio per questo che alla nostra esecrazione dobbiamo affiancare subito domande scomode e tentativi di risposta. Le Torri di New York distrutte, il Pentagono in fiamme, migliaia di morti, l' America umiliata in mondovisione: non si può arrivare a tanto senza una robusta organizzazione, senza una nutrita e qualificata manovalanza del terrore che nessuno ha intercettato. La sconfitta dei servizi d' informazione statunitensi è bruciante per tutti, e la paura cresce se si pensa che la dissoluzione dell' Urss ha messo in circolazione mini-atomiche facilmente trasportabili. Cambierà il mondo, dopo le stragi aviotrasportate? Di certo cambieranno le misure di sicurezza, e le preoccupazioni italiane per i vertici in arrivo paiono ancor più fondate. Ma soprattutto cambierà l' America, mai prima d'ora colpita da una Pearl Harbor metropolitana. Un colpo di frusta tanto devastante potrebbe spingere gli Usa verso un accentuato isolazionismo. La vera lezione è invece di segno opposto: cadono le rinnovate illusioni di invulnerabilità (si pensi al progetto di «scudo» anti-missile), mostra la corda la distanza sinora tenuta dalla crisi mediorientale, si prospetta un umore americano più interventista che non potrà limitarsi alla voglia di castigo. E si pongono qui, allora, le questioni di fondo: chi è il nemico invisibile che si è macchiato di tanto sangue? Quale intelligenza scellerata vuole sfruttare un mondo nuovo diventato più instabile e più imprevedibile? E quale può essere, davanti a una simile sfida, la risposta di un Occidente democratico e legalitario? Servirà del tempo per individuare i responsabili della tragedia, ma qualche indicazione oggettiva esiste. Sappiamo che Osama Bin Laden, il miliardario saudita impegnato da anni in una personale guerra santa contro l' America, aveva annunciato «attacchi senza precedenti» che avrebbero stupito il mondo. I Talebani che lo nascondono in Afganistan giurano che non è stato lui. Ma chi altri avrebbe potuto finanziare una operazione tanto complessa, e quale credito può essere accordato agli stessi Talebani campioni di ambiguità e di oscurantismo anti-occidentale? Dal fronte palestinese sono venute la solidarietà di Arafat a Bush e le smentite di Hamas e del Fronte di liberazione. Ma un esponente della Jihad ha giustificato gli attentati, e gruppi di palestinesi hanno sciaguratamente festeggiato il massacro in Libano, a Nablus, a Gerusalemme Est. Né possono essere dimenticati i fondamentalisti che vogliono la liberazione dello sceicco Omar Abdel Rahman, cervello dell' attacco compiuto nel ' 93 proprio alle Torri gemelle di New York. L' indice accusatore punta, è impossibile negarlo, al mondo islamico. Alle sue frange oltranziste e frustrate, alle segrete complicità di alcuni suoi regimi, al suo fanatismo religioso mai davvero sconfitto. Il rischio da evitare è che tra Occidente e Islam il solco si approfondisca, che sull' onda della violenza di pochi si arrivi allo «scontro di civiltà» previsto da Samuel Huntington. Non è questa la via da percorrere. Ma se ai colpevoli e soltanto a loro si deve giungere, l' Occidente dovrà saper porre il coordinamento della lotta anti-terrorismo al centro delle sue priorità. Troppo diverse sono state sinora le valutazioni politiche nei confronti di Stati sospetti. Troppo reticente è stata la cruciale collaborazione tra i servizi di intelligence. Troppo larga (e l' Italia non fa eccezione) è stata la tolleranza verso un anti-americanismo ideologico che nulla ha in comune con il diritto di critica. Bisogna cambiare alla svelta, se vogliamo poter guardare senza angoscia gli aerei che passano sopra le nostre teste.

mercoledì 10 settembre 2008

inversione di ruoli


In questi ultimi giorni stavo riflettendo sulla figura del nuovo ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca Maria Stella Gelmini, sempre più al centro dell'attenzione mediatica dopo un inizio alquanto defilato dietro le quinte del governo berlusconiano. Questa trentacinquenne bresciana dall'aria abbastanza sorniona e cheta, con una laurea in giurisprudenza (specializzazione in diritto amministrativo) e con l'abilitazione alla professione forense ottenuta presso la Corte di Appello di Reggio Calabria nel 2002 (sono note le polemiche al riguardo), è assurta a protagonista delle cronache politiche (e non solo) per le sue uscite sui famosi grembiulini da ripristinare nelle scuole elementari e dell'obbligo, sulla polemica riguardante il suo giudizio non propriamente benevolo nei confronti degli insegnanti del Sud Italia e, da ultimo, il suo annuncio del pesante taglio nel numero dei docenti (circa 90.000) per risanare il sistema scolastico italiano. Ora, senza entrare nel merito e nel giudizio personale sulle sue estemporanee dichiarazioni e bislacche idee al riguardo, mi permetterei di suggerire al gentile ministro, che ha l'occhio di riguardo per le elementari (da notare che sia la madre sia la sorella sono maestre elementari), di provare a fare una piacevole inversione nei ruoli: lei da ministro a maestra e una maestra a ministro. Magari (prima di calarsi nei panni di docente) dando un'occhiata ad una bella lettera scritta da una professoressa di una scuola di Roma e pubblicata l'altro ieri su l'Unità. Potrebbe trovare buoni spunti per una sana riflessione. Ecco la lettera nella sua integralità. Autostrada del Sole, domenica pomeriggio. Stanca, sono stanca; alzataccia alle 5.30 per raggiungere Firenze da Roma e partecipare all’assemblea dell’associazione «Per la Scuola della Repubblica»: insegnanti autoconvocati che si vedono periodicamente per discutere di scuola. La notizia non mi coglie di sorpresa. Si tratta del leit motiv di questa estate: il ministro dell’Istruzione ha per l’ennesima volta parlato male degli insegnanti. Ho smesso da tempo di idealizzare i docenti della scuola italiana; uno sguardo imparziale penso dia conto dell’ovvia eterogeneità delle figure che popolano il mondo della scuola. Proprio uno sguardo imparziale può però consentire una sterzata realistica ad un immaginario collettivo fagocitato da una irresponsabilità istituzionalizzata. Caccia agli untori: secondo Gelmini e i suoi mentori, gli insegnanti. Tutti o quasi. Categoria di cui io faccio parte. Insieme a tanti come me. Penso a domani. Il rito degli scrutini, dopo il rito degli esami per il recupero del debito: ragazzi con carenze diffuse ed eterogenee accumulate in più anni sottoposti a corsi brevi e frammentati, in classi improvvisate, con insegnanti diversi dal proprio. Penso a dopodomani. Assegnazione delle cattedre; collegio docenti. E poi ancora, riunione per materie. E così via, fino al giorno in cui ci verrà chiesto di rientrare in classe, in questa estenuante preparazione di inizio settembre. Penso. All’anno che verrà. Agli anni che sono passati. Sveglia presto, due bambini da accompagnare in due scuole diverse. Arrivo a scuola, sempre in orario: non si può chiedere agli studenti di rispettare le regole quando non le si rispetta per primi. Mattinate rilassate, mattinate faticose; è una generazione problematica, che chiede attenzione in un modo a volte nemmeno più tanto originale, purtroppo: tre ragazze anoressiche su tre classi. Problemi differenti, veri e propri drammi, intralci di quel passaggio delicato che è l’adolescenza, fantasia ed emotività imbrigliate in una coercizione che di educativo ha ormai solo il nome: scuola. Interessarli, incuriosirli è ogni giorno una sfida contro il tempo e contro le lusinghe del fuori e le seduzioni del mercato. Fornirgli risposte è una cabala impietosa, che spesso mette a contatto con la propria inadeguatezza. Schizzo per andare a riprendere i figli: affamati, stanchi, fucine di domande. I compiti da fare, le attività pomeridiane da svolgere. Penso. A una società che ancora viaggia sull’idea che gli insegnanti lavorino 4 ore al giorno e abbiano 3 mesi di vacanza. Mediamente torno a scuola 3-4 pomeriggi a settimana. Quando non torno ho valanghe di lavori da correggere: da sempre i miei studenti liceali ogni 10 giorni sono chiamati a scrivere un saggio breve, un articolo di giornale, una relazione. Oltre ai proverbiali compiti in classe. Ma d’altra parte si sa: a scrivere si impara scrivendo. E discutendo le correzioni. Su 3 classi, circa 2500 lavori corretti ogni anno. I risultati si vedono. Ma lo sappiamo io e loro. E adesso voi. Penso: le commissioni, i progetti, l’investimento sull’innalzamento dell’obbligo scolastico, il tentativo di riflettere sulle trovate che ciascun governo ha proposto, che quello seguente ha puntualmente rimosso. L’aggiornamento, inutile e non riconosciuto (e semmai boicottato): esercizio di amor proprio, di dignità professionale. Il rapporto con le famiglie, la ferma volontà di arginare il tentativo di creare un mercato della scuola e di fare della scuola un mercato: l’utente non ha sempre ragione. Penso. Il patto scellerato, la femminilizzazione della professione. Essere mamma e insegnante non è una cosa facile, quando si è scelto di interpretare la propria dimensione professionale con dignità intellettuale, culturale, relazionale. Con dignità politica, in senso ampio. Che è quella che mi ha consentito in questi anni di essere un’insegnante scrivendo, partecipando a convegni, riflettendo nella scuola e con la scuola sulla complessità di un impegno che si concretizza nel formare cittadini consapevoli, critici, autonomi. Provando a fornire loro risposte attraverso la declinazione di alfabeti diversi, quali sono quelli che la complessità ci propone. Ma i miei figli devono essere ripresi, raggiunti, riportati a casa. È bello trovare un po’ di tempo per parlare con loro, ancora un po’. C’è la cena da preparare, la casa da sistemare. La critica su Ariosto merita di essere rivista, per individuare chiavi di lettura alternative a quelle proposte negli anni precedenti; il brano di Tacito riguardato nei suoi passaggi fondamentali. Lo faccio per me, lo faccio per loro, i miei liceali. Il 5 in condotta non sarà un mio problema. Ma intanto so che a Torino qualcuno si sta preoccupando di reperire strumenti adatti - cultura di massa, film, formazioni di calcio - per coinvolgere quelli che lì chiamano «truzzi», qui a Roma «coatti»: a Palermo, a Napoli, a Milano - universalmente - gli «sfigati», che la scuola può salvare da dispersioni non solo scolastiche, ma esistenziali. Penso: ho ancora una cesta di panni da stirare. Vado a letto, ministro: a rimuginare sul senso di tutto ciò e sul fatto che - per 1390 euro al mese - sono stanca di essere insultata. Firmato: Marina Boscaino.

martedì 9 settembre 2008

10 anni senza il nostro caro Lucio


La mattina del 9 settembre del 1998, in una stanza del secondo piano della terapia intensiva dell'Ospedale San Paolo di Milano, moriva a seguito di un tumore al fegato un mito della musica leggera italiana. Lucio Battisti, il rivoluzionario delle emozioni (come lo definì mirabilmente il critico musicale Mario Luzzatto Fegiz) nonchè compagno in sottofondo delle storie d'amore di chissà quanti italiani, ci lasciò senza far rumore, coperto dalla cortina impenetrabile del silenzio eretta dalla moglie Grazia Letizia Veronesi e dal figlio Luca. Un modo discreto e garbato per andarsene, specchio riflesso della sua indole e della sua anima non contaminate dal business delle canzoni e dai lustrini dei palcoscenici televisivi. Per ricordarlo ho scelto di integrare questo mio post con un bellissimo articolo scritto il giorno dopo la sua morte dal politologo Ernesto Galli Della Loggia per il Corriere della Sera e con due trasmissioni televisive rievocative della figura e delle canzoni di Lucio (e dei testi poetici di Giulio Rapetti, in arte Mogol): Matrix di venerdì scorso (http://www.matrix.mediaset.it/videogallery/2008/09/06/videogallery.shtml) e TG2 Dossier di domenica pomeriggio (http://www.raiclicktv.it/raiclickpc/secure/stream.srv?id=40320&idCnt=78077&path=RaiClickWeb^Notizie^Home). E questo era l'articolo di Della Loggia di 10 anni fa. C'e' un tributo che ogni generazione e' chiamata a pagare al proprio romanzo di formazione, ed e' un triste tributo perche' l'ora in cui esso chiede con maggiore urgenza di essere pagato e' per lo piu' l'ora della morte di chi ha scritto o animato le pagine di quel romanzo. Nulla come la subitanea scomparsa determinata dalla morte rende consapevoli della lunga durata di certe presenze. Per la generazione che fu giovane tra gli anni Sessanta e Settanta Lucio Battisti ha rappresentato una di queste presenze. Le sue canzoni accompagnarono le opere e i giorni, scandirono le avventure, gli amori, gli incontri di coloro il cui romanzo di formazione si svolse in quel decennio tumultuoso e irripetibile. Ne hanno segnato per sempre le emozioni, per usare la parola fatale che forse come nessun'altra e' in grado di far rivivere nel ricordo il mondo di Battisti. E poco importa - come gli attenti filologi avranno subito lo scrupolo di annotare - che in realta' egli fu solo il musicista delle sue canzoni, e che e' al grande Mogol che va il merito dei loro testi straordinari. Poco importa, perche' egli fu sì il musicista ma pure il cantante e l'arrangiatore, e senza quelle note e quella sua voce esile e rotta, così intrisa di una sgraziata gioventu', anche quei testi non sarebbero mai riusciti - come invece riuscirono - a divenire le epigrafi di un'epoca e di una generazione. Al pari delle canzoni di Mina, anche le canzoni di Battisti rimarranno nella storia del costume italiano come quelle che piu' tipicamente hanno saputo dare voce, nell'esperienza del nostro Paese, a uno dei momenti piu' cruciali dell'avvento della modernita': il cambiamento dei rapporti tra i sessi. I giovani uomini cantati da Battisti non assomigliavano quasi piu' in nulla ai loro padri. Avevano perduto tutte le sicurezze tradizionali dei maschi, e insieme qualsiasi orgoglio di ruolo, qualsiasi idea di dominio vuoi sul mondo vuoi sulle donne. Assomigliavano piuttosto a dei cuccioli selvatici sballottati tra velleita' e rimorsi, ansiosi di una carezza ma pronti anche a mordere la mano di chi ci avesse provato. E tali molti di loro si sarebbero sempre sentiti. Da essi, infatti, comincio' quella generazione di uomini destinati a non crescere mai - a restare in un certo senso degli eterni ragazzi, con i gusti, l'immagine di se' e anche la poca consapevolezza delle proprie responsabilita' - che tanto spazio avrebbe occupato nell'antropologia italiana degli anni successivi. Guidato dalla rabdomantica sensibilita' del suo paroliere, Lucio Battisti fu capace come pochi altri di esprimere questo mutamento dei ruoli di genere, riuscì a calare nell'incertezza radicale prodotta da tale mutamento l'emozione eterna del cuore e dei sentimenti, ma che proprio per cio' era ora un'emozione ancora piu' fragile e piu' disperata, anticamera di uno spaesamento esistenziale non lontano da suggestioni e da echi di sapore giovanilmente nichilistico. E di nuovo, così, anche per questa via, egli giunse puntuale all'appuntamento con la generazione di quegli anni agitati e rovinosi. Le canzoni di Battisti sancirono la difficolta' che la modernita' italiana ebbe, sullo sfondo repentinamente in rovina del mondo di ieri, di accettarsi sino in fondo e di sapersi costruire con tranquillita' come tale: senza residui ne' di rimpianti ne' di illusioni. A ben vedere, quella difficolta' e' ancora la nostra. Ed e' forse proprio per questo che i figli dei figli di quell'epoca, che fu solo di Lucio Battisti, ancora oggi intonano e ripetono il loro personale canto libero.

lunedì 8 settembre 2008

qualche riflessione sul caso Alitalia


Lo spinoso e controverso "caso Alitalia" mi ha fatto sorgere una precisa domanda per capire se quella congegnata da banca Intesa Sanpaolo e dal Governo sia realmente una buona operazione: è importante che un Paese abbia una compagnia di bandiera controllata da capitali nazionali e amministrata da manager italiani? Il presidente del Consiglio Berlusconi, il ministro dell'Economia Tremonti, la presidente di Confindustria Marcegaglia, l'amministratore delegato di Intesa Sanpaolo Passera (e con loro tanti altri) sono convinti che sì, è importante. Non a caso Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna se la tengono ben stretta (la compagnia di bandiera). Perchè, secondo questa visione, controllare la principale compagnia aerea nazionale serve a favorire i flussi turistici verso il proprio Paese, a programmare meglio le destinazioni internazionali per rispondere alle esigenze delle imprese esportatrici, a coordinare il trasporto interno con altri mezzi come il treno e l'auto. Di fronte a questa esigenza superiore viene meno qualsiasi obiezione: Alitalia va rimessa in pista, in mani italiane e a qualsiasi costo. Berlusconi ha battuto anche su questo punto in campagna elettorale (vincendola), sfruttando tra l'altro i timori del Nord (e della Lega) che vedeva ridimensionarsi il ruolo dei suoi aeroporti. Ma a dare al cavaliere l'opportunità di realizzare il progetto della cordata italiana sono stati i sindacati, i quali hanno detto di no alla proposta di Air France-KLM accettata dal precedente governo Prodi. Certo non è stato difficile, per la cordata italiana, mettere a punto un progetto credibile. Se si può stabilire (senza vincoli) il numero dei dipendenti, se si possono riscrivere i contratti di lavoro, se è lo Stato (i cittadini) che si fa carico degli esuberi e dei debiti della vecchia Alitalia, se agli azionisti e agli obbligazionisti si dà un contentino con i fondi pubblici, se si può controllare il 57% del mercato italiano (il quarto in Europa e l'ottavo nel mondo) con il monopolio della rotta Milano Linate-Roma Fiumicino senza che l'Antitrust possa dire niente (è stata approvata un'apposita legge per superare l'ostacolo), beh, con tutto il rispetto per gli imprenditori coinvolti, non bisogna essere dei geni per far funzionare la nuova Alitalia! Quindi, a mio modesto avviso, meglio non parlare di "miracoli", anche perchè c'è il rischio che l'Unione Europea si metta di traverso. Il problema, in verità, è guardare oltre: la nuova Alitalia, sia pure alleggerita e ben gestita, reggerà la concorrenza dei colossi europei? Oppure, già tra pochi anni, diventerà di nuovo appetibile preda di Air France-Klm o di Lufthansa o perchè no di British Airways? Se questo fosse lo sciagurato esito, per il contribuente italiano sarebbe l'ennesima, atroce e dolorosa beffa. Mi auguro che ciò non avvenga.

sabato 6 settembre 2008

che sta succedendo a Veltroni?


E' questa la domanda che mi sto ponendo, con frequenza quasi giornaliera e con preoccupazione quasi settimanale, per cercare di capire cosa stia succedendo all'uomo politico che fino a pochi mesi fa sembrava la svolta, la nuova ancora di salvezza della zattera del centrosinistra dopo la tempesta politica che aveva fatto affondare Prodi e la sua squadra. La domanda mi sovviene soprattutto in questi ultimi giorni in cui si sta svolgendo, alla Fortezza da Basso di Firenze, la prima Festa Democratica (ex Festa dell'Unità) con incontri-scontri tra alcuni dei più conosciuti esponenti del PD, con alla base della discussione sempre e comunque la figura e l'opera politica del segretario, quasi sempre criticata (come nel recente intervento di Arturo Parisi. Nessuno capisce bene se i consiglieri di Walter Veltroni ci facciano o ci siano. Ma di sicuro tutti comprendono che il segretario del Partito Democratico si dovrebbe affrettare a cacciarli e sostituirli. O, se invece le trovate politiche che ha tirato fuori negli ultimi giorni fossero farina del suo sacco, a fare autocritica e comprendere di non essere totalmente in completa sintonia rispetto al compito che ha voluto e gli hanno affidato. È vero che qualcuno ha salutato con il primo segnale di vitalità del PD e del suo segretario la richiesta di discussione immediata in Parlamento della proposta di voto agli immigrati senza cittadinanza. E che qualche altro si è subito accodato alla sua protesta contro il governo per la troppo rapida scarcerazione dei tifosi napoletani arrestati dopo le devastazioni di domenica scorsa. Ma questi commenti puzzano di bruciato. Confermano l’impressione che dentro il PD molti si siano convinti che l’unico modo per liquidare Veltroni sia quello di affogarlo tra gli elogi espressi per mosse sbagliate. Perché chiedere il diritto di voto per gli immigrati o prendersela con il governo per la scarcerazione dei violenti non è un segno di vitalità ma solo la conferma di uno stato di totale confusione. Veltroni, in buona sostanza, continua a comportarsi come un pugile suonato, che tira pugni al vento e non riesce a cogliere l’avversario neppure al bersaglio grosso. La richiesta di voto agli immigrati sembra fatta apposta non solo per confermare la compattezza del PdL (seppur con le dovute eccezioni dell'apertura di Fini e Rotondi) sulla tesi che solo la cittadinanza può dare il diritto al voto. Ma soprattutto per dare all’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro l’ennesimo spunto per strappare al Partito Democratico quella parte di elettorato che pur essendo culturalmente di destra non vota per l’attuale maggioranza solo in odio al cavaliere. La protesta contro la scarcerazione dei tifosi violenti, inoltre, è un vero e proprio autogol. Non dipende dal governo ma dalle leggi e dalle interpretazioni che ne dà la magistratura la decisione di rimettere in libertà dopo appena un giorno i mascalzoni della domenica. Volendo colpire il governo, Veltroni avrebbe dovuto attaccare il Ministro dell’Interno contestandogli di non aver rimproverato adeguatamente i questori di Roma e di Napoli. Invece ha attaccato l’esecutivo per una carenza di legge e responsabilità della magistratura. Ed in questo modo ha reso addirittura un favore a chi, all’interno della maggioranza, sostiene che per garantire la sicurezza nel Paese sia necessario cambiare le leggi e rimettere in riga i magistrati. Ma è possibile che un politico esperto e navigato come Veltroni possa compiere errori così marchiani? Probabilmente sì, se valgono le metafore del pugile suonato e del fantasma evanescente. Con l’attenuante, però, che non ci sono molte altre questioni su cui Veltroni possa incalzare il governo senza uscirne con le ossa rotte. Il caso più clamoroso è quello dell’Alitalia. Invece di sollevare una questione astratta e di scarsa attualità come il voto per gli immigrati senza cittadinanza e quella sbagliata delle scarcerazioni facili, il segretario del PD dovrebbe entrare nel merito del caso Alitalia (a prescindere dalla battuta "una compagnia di bandierina"). Non per ripetere la solita solfa ormai superata del disappunto per la mancata svendita ad Air France ma per entrare nel merito della discussione che divide attualmente i sindacati. E dire se il PD è per la linea-Epifani del fallimento o quella del salvataggio di Bonanni ed Angeletti. Cioè chiarire una volta per tutte se il Partito Democratico è per il “tanto peggio, tanto meglio” o se sceglie la linea riformista e punta a contribuire alla ripresa del Paese. Senza se e senza ma. Indossando i panni veri da leader del partito di opposizione. Una volta per tutte.

un anno senza Big Luciano


Alle 5 di mattina di giovedì 6 settembre dello scorso anno moriva nella sua villa a sud di Modena, stroncato da un tumore al pancreas, uno dei più grandi tenori di tutti i tempi: Luciano Pavarotti. Mi piace ricordarlo oggi con questo mio post inserendo un brano (http://it.youtube.com/watch?v=ONUCPKdGcrk&feature=related) che credo sia il più rappresentativo di tutti nella sua immensa gamma di rappresentazioni vocali espresse in 46 anni di carriera: il "Nessun dorma" dalla Turandot di Giacomo Puccini. Artista completo e sapiente comunicatore (nel senso moderno del termine), e soprattutto personaggio comunque unico all'interno del mondo dello spettacolo, ambasciatore nel mondo del belcanto all'italiana, amante della buona tavola come Rossini e impegnato nella solidarietà (che solo in parte ha bilanciato la caduta di immagine dovuta ai suoi problemi con il fisco, Luciano Pavarotti è stato riconosciuto da molta parte della critica come uno fra i migliori cantanti nel registro di tenore del XX secolo, un secolo che pure ha dato numerosi grandi protagonisti al mondo dell'opera lirica, alcuni dei quali - suoi coetanei o quasi - ancora in attività.
Questo riconoscimento gli è venuto non soltanto per la particolare estensione vocale e padronanza tecnica dello strumento voce, uniti ad una capacità di interpretazione in grado di porlo nella condizione di andare in profondità nella lettura dei personaggi che andava a interpretare sul palcoscenico e nei solchi delle incisioni discografiche, ma anche (e soprattutto) in virtù di quello che il suo collega Josè Carreras ha definito naturale carisma, di cui Pavarotti era evidentemente dotato. Big Luciano - per tutti, il Maestro - è stato al contempo il testimone di un'epoca e di una professione, quella di cantante, per la quale - secondo le sue stesse parole - non è sufficiente il solo talento se esso non è supportato da un'adeguata e talvolta faticosa opera di studio. "Penso che una vita per la musica sia un'esistenza spesa meravigliosamente". Questa la splendida frase (che campeggia ancora oggi sul suo sito ufficiale) che mi piace riproporre per ricordare il Maestro ad un anno esatto dalla sua scomparsa. Ciao Big Luciano.

mercoledì 3 settembre 2008

un indimenticabile eroe italiano


Il 3 settembre del 1982, a Palermo, in via Isidoro Carini, poco dopo le ore 21 un commando mafioso trucidò il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente di scorta Domenico Russo. A 26 anni di distanza da quel tragico episodio molti italiani hanno ancora nel cuore il generale nonchè prefetto di ferro che, dopo aver sconfitto il terrorismo delle Brigate Rosse, stava cercando di debellare anche la mafia in Sicilia. Ma lo Stato lo lasciò da solo in quella improba impresa (significativa in tal senso l'ultima intervista di Dalla Chiesa a Giorgio Bocca qualche giorno prima dell'eccidio). Gli investigatori, grazie alla testimonianza dei pentiti, sono riusciti a ricostruire la dinamica dell’agguato e ad identificare i killer ed i vertici di Cosa Nostra che ordinarono l’azione omicida. Invece ancora oggi sono molti i misteri sui mandanti occulti, cioè coloro che "ispirarono" Cosa Nostra. A tal proposito in una intercettazione ambientale il boss Giuseppe Guttadauro, uomo di fiducia dell'ex superlatitante Bernardo Provenzano, mentre parla con Salvatore Aragona, anche lui medico e mafioso, dichiara « Salvatore…ma tu partici dall’ottantadue, invece… ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare a Dalla Chiesa…andiamo parliamo chiaro…». «E che perché glielo dovevamo fare qua questo favore…». Sorge una domanda: a chi? Ma andiamo per ordine. Le fasi dell'eccidio sono state ricostruite dai pentiti, Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo. L'A112, su cui si trovavano il prefetto e la moglie, venne affiancata e superata da una Bmw 518 su cui viaggiavano Antonino Madonìa e Calogero Ganci. A fare fuoco con un kalashnikov fu Madonìa. Una seconda vettura, guidata da Anzelmo, seguiva il prefetto, pronta ad intervenire per bloccare l'eventuale reazione dell'agente di scorta. Russo fu assassinato da Pino Greco, detto «Scarpuzzedda», che seguiva i suoi complici a bordo di una moto. La A112, dopo essere stata investita dal fuoco del kalashnikov, sbandò, costringendo l'auto dei killer a sterzare bruscamente a destra. Fecero a gara a chi sparava più colpi. "Me li avete fatti trovare morti", disse ai complici Pino Greco, killer del gruppo di fuoco di Cosa nostra, rammaricato di essere arrivato quando il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie, Emanuela Setti Carraro, erano già morti. Respirava ancora, agonizzante, l'autista, Domenico Russo. Lo finì Pino Greco. Il 3 settembre del 1982 la guerra che la mafia aveva dichiarato allo Stato segnò uno dei momenti più tragici. Sotto una pioggia di piombo cadde un simbolo delle istituzioni, costretto, negli ultimi giorni della sua vita, ad affidare al giornalista Giorgio Bocca l'amaro sfogo di chi ha capito di essere solo. "Un uomo viene colpito quando viene lasciato solo", disse. Parole che descrivevano le condizioni difficili in cui il generale svolgeva il compito di superprefetto contro la mafia. Nell' uccisione di Dalla Chiesa il ruolo esecutivo della mafia è ormai accertato. A distanza di 26 anni dall'eccidio, però, restano intatte le zone d'ombra di cui parlano gli stessi giudici di Palermo che hanno condannato i killer. Le sentenze sottolineano la "coesistenza di specifici interessi - anche all'interno delle istituzioni - all'eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale". La giustizia si è fermata ai mandanti mafiosi, dunque, e agli esecutori materiali. All'ergastolo sono stati condannati i killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia e a 14 anni i collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Gli uomini della "cupola", Totò Riina, Bernardo Provenzano e Michele Greco, erano già stati condannati al maxiprocesso, nato proprio da un rapporto di Dalla Chiesa contro 162 esponenti di Cosa nostra. Durante i giorni che precedettero la strage di via Carini il generale Dalla Chiesa cercò di rispondere allo strapotere delle cosche e di spezzare il legame tra mafia e politica. Le iniziative di Dalla Chiesa furono frenate da ostilità politiche ambientali e da una ridotta capacità di intervento. Il prefetto reclamò continuamente la concessione di poteri di coordinamento che solo dopo la sua morte, però, vennero formalizzati. A margine di questa giornata dedicata al ricordo del sacrificio del generale, di sua moglie e dell'agente di scorta, vi consiglio di rivedere la puntata de La Storia siamo noi di Giovanni Minoli (http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=1076) che con la consueta, intelligente, asciutta rievocazione ci induce a qualche riflessione di non poco conto. E ci consegna un ottimo ricordo dell'amato generale.

martedì 2 settembre 2008

e li chiamano arresti domiciliari


Francamente non so se il mese di agosto l'ho trascorso meglio io in un dignitoso albergo a tre stelle o l'ex furbetto del quartierino Danilo Coppola. Quando ho saputo, leggendo un articolo su di un settimanale, che il giudice di sorveglianza del tribunale di Roma gli aveva concesso il permesso di trascorrere al mare, in una villa, gli arresti domiciliari, beh francamente ho pensato che la vergogna a volte non conosce confini. Una villa principesca, a Punta Volpe, l'enclave più esclusiva di Porto Rotondo (a proposito, il cavaliere che dimora non molto lontano non ne sapeva niente?). Una casa raffinatissima su un piccolo promontorio in fondo a una stretta lingua di terra, circondata dal mare su tre lati e dalla macchia mediterranea. Apri le finestre e la vista spazia sul Golfo di Marinella: molto diversa da quella del Lungotevere. Quest'anno, per tutto il mese di agosto, questa splendida villa se l'è assicurata (affittandola per la modica cifra di 100.000 euro) un ospite molto particolare, un "prigioniero" che trascorre le vacanze agli arresti domiciliari. E' l'immobiliarista Coppola, arrestato il 1° marzo 2007 per un crac da 130 milioni di euro. Dopo aver trascorso 104 giorni in isolamento a Rebibbia l'immobiliarista aveva ottenuto, per motivi di salute, gli arresti domiciliari nella sua villa (una delle tante) di Grottaferrata. Nel novembre dello scorso anno le sue condizioni peggiorarono: a seguito di un arresto cardiaco fu ricoverato al Policlinico Umberto I. Successivamente fu trasferito all'ospedale di Frascati da cui fuggì il 6 dicembre (e meno male che era moribondo!) per farsi intervistare da SKY TG24 e per "denunciare la persecuzione dei giudici". Per questa "evasione" lo rimandarono in galera; dopo qualche mese di nuovo ai domiciliari, nella casa della madre a Finocchio, una borgata di Roma. E dal 1° agosto (quasi come un premio) in Sardegna. Non mi sembra che si siano alzate voci indignate da parte di esponenti politici dell'una o dell'altra parte. Men che meno da parte del ministro Alfano (troppo impegnato con il suo Lodo...). Immagino cosa avranno pensato quei detenuti in attesa di giudizio magari per aver fatto un "crac" da 130 euro, altro che 130 milioni...

lunedì 1 settembre 2008

ritorno alla (deprimente) realtà


Le vacanze sono terminate. Purtroppo queste tre settimane di relax se ne sono andate come il passaggio di "Gustav" sul Golfo del Messico. In un soffio (alquanto violento però). Stando lontano dal computer e dalla tastiera mi sono immerso in un mondo semi-onirico e quasi fiabesco, circondato da persone che mi salutavano con il sorriso e con la stretta di mano, che davano la precedenza agli incroci, che non sostavano in doppia fila ostruendomi per uscire dal parcheggio, che alla cassa del supermercato se mi vedevano con la busta della spesa con sei o sette articoli mi facevano passare davanti per pagare. Praticamente ho vissuto in un sogno. Perchè il risveglio è stato traumatico già da ieri sera al casello autostradale, dove con la lamiera della mia auto dovevo fare muso a muso con gli altri vacanzieri al rientro che temevano di essere sorpassati in fila e che già erano pronti a lanciarmi corna e contumelie. E poi questa prima mattinata di settembre, il ritorno alla quotidianetà, al lavoro, al traffico congestionato romano, al solito soffocante tran tran metropolitano. E come se non bastasse, azzardandomi ad accendere la tv verso le 8.30 (malauguratamente sintonizzata su Canale5), mi tocca sorbirmi anche l'accoppiata Belpietro-Berlusconi: il primo sempre prono e serviziole con il suo padrone editoriale; il secondo (manco a dirlo) che per telefono ci rendeva edotti del suo "storico" accordo con l'altro suo pari grado (in fatto di nefandezze) Gheddafi, al grido di "meno clandestini, più gas (di ottima qualità) per gli italiani", con tanto di risarcimento miliardario in comode rate. Che dire, mi sarebbe piaciuto ritornare ad una realtà meno deprimente e meno berlusconiana. Ma sapevo che tre settimane erano troppo poche per sperare nel miracolo.